Vorrei che la mia gente, che è quella della Lombardia, non cascasse per l’ennesima volta nel tranello di chi ci vuole con l’elmetto, quello rosso e quello nero, ancora divisi tra guelfi e ghibellini. Se accadrà, l’avranno fatta franca, di nuovo, come sempre, brindando a champagne sulle loro spiagge esclusive, che non avranno nessun box di plexiglass, ma gli yacht ormeggiati in riva al mare, barche lussuose che avranno comperato con i soldi che gli abbiamo dato noi.
A loro i grandi motoscafi, nel mare cristallino. La plastica sarà solo per noi, la metteranno sulle rive dei nostri laghi, su quelle dei nostri fiumi, lungo i sentieri che portano in cima alle nostre bellissime montagne. Proveranno a farci vivere tra scudi di plexiglass e miseria, la seconda cosa disumana che stiamo iniziando a sentire sempre accanto, senza manco aver avuto la possibilità di seppellire degnamente chi ci ha lasciato, spesso ignorando dove siano finite le spoglie dei tanti che valevano e che adesso non ci sono più.
Vorrei che la mia gente, che scorre nel mio sangue, bergamasco, lecchese, bresciano e valtellinese, persone meravigliose che non sono le macchiette raccontate dai giornaloni, ma anime e cuori, braccia, gambe e polmoni, coraggio e solidarietà, riuscisse a vincere la frustrazione e la malinconia, scendendo in piazza a reclamare i diritti che gli spettano, quelli che stanno nella nostra Costituzione. Se tutti sono troppi, anche solo i dodici principi fondamentali: la sovranità che appartiene al popolo, la dignità sul lavoro, che significa che ci spetta il giusto riconoscimento per quanto facciamo, la salute, la libertà, l’istruzione per i nostri figli, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’obbligo di non lasciare indietro nessuno, solo a crepare di fame, tutte cose che paghiamo con le trattenute delle nostre buste paga.
Vorrei che la mia gente, incontrata ogni volta che sono andato per lavoro a Mantova, a Cremona o a Milano, pensasse che la nostra felicità non sia un di più, ma qualcosa che ci deve essere garantito da chi ci rappresenta. Io sto bene quando mi dicono la verità, bella o brutta che sia, mi dà sicurezza, mi fa sentire libero.
Vorrei che la mia gente, che è buona, che mi accoglie e mi sorride, non si dimenticasse. Non si scordasse di Emiliano, degli altri diecimila, morti perché chi doveva esserlo, non era preparato, di Daniele che cerca ancora dove siano finite le ceneri di sua nonna, di Greta e di Matteo che non sanno come fare a pagare le bollette che gli sono appena arrivate, dei due papà che hanno pianto insieme a me mentre mi chiedevano di fargli la spesa per dar da mangiare ai loro figli, di Gabriella che è stata multata perché per non morire aveva bisogno di camminare lungo i sentieri che portano all’Adda, di me e di mia mamma che ogni giorno alle sei di sera sentiamo sulla pelle di mancarci da morire, dei miei figli, Vinicio e Zeno, della mia nipotina Miranda, ragazzi spenti, come ognuno della loro generazione, piantonati in casa perché gli hanno messo addosso la paura fottuta di superare questi duecento metri, maledetti, che da mesi ci dividono dalla felicità.
Matteo Bonfanti
La foto bellissima è di Vinicio Bonfanti, 13 anni, nato a Bergamo, lombardo