di Marco Bonfanti
Chi avesse letto il nostro pezzo della scorsa settimana, dopo l’inguardabile partita tra Lecco e Olginatese, avrebbe potuto pensare che la pesante ironia sulla prestazione dei calciatori blucelesti fosse un tantino esagerata. Dopo la prova di ieri, sconfitta in casa con l’ultima in classifica, possiamo invece, con sicurezza, affermare che le nostre parole se non soffici e leggere, erano certamente giuste. Il Lecco, senza arte né parte, affonda verso la retrocessione, di domenica in domenica si assiste ad un gioco sempre più incoerente, slegato, inefficace e malato.
Noi ieri, giusto confessarlo, all’ennesima partitaccia ci siamo sottratti. Stavamo per andarci, ma, venuta meno la solita, quella almeno brillante, compagnia, ci siamo mollemente adagiati sul divano, godendoci una diretta gol di tante segnature. Sul campo del Lecco era pure squalificata la tribuna, nostro luogo abituale di vedetta. E il Lecco che scende speditamente verso gli inferi un record è riuscito comunque a stabilirlo, quello appunto d’una squalifica ad un settore dello stadio, la tribuna, mai comminata a nessuna società, sia livello nazionale che internazionale. Qui però una lancia a favore del Lecco ci sembra giusto spezzarla. Ora la norma recente che sanziona le squadre ree di discriminazione territoriale, già ci sembra poco chiara e poco precisa, affidata come è a giudizi alquanto soggettivi di persone non ben qualificate. Se tale norma comunque colpisce il tifo organizzato può anche avere un senso, il connubio tra tale tifo e società di appartenenza è, per quanto lo si possa smentire, sufficientemente comprovato. Quindi se i tifosi organizzati insultano l’arbitro o gli avversari per le loro origini etniche, che venga punita pure la società, chiudendo quel settore di stadio, la curva, da dove i tifosi lanciano i loro improperi. Ma come si fa, ed è quello che è successo a Lecco, a generalizzare a tutto lo stadio tale normativa, già di per sé cervellotica?
Durante l’ultima partita in casa due (e dico due) tifosi della tribuna hanno dato dell’alluvionata alla terna arbitrale sarda. La federazione ha tolto un punto al Lecco (poi ridato) e squalificato l’intero stadio (poi commisurato alla sola tribuna). Ma, io dico, non si capisce che così facendo si regala un potere di ricatto ad ogni singolo tifoso, potere che deprezza ancor più il calcio giocato? E come potrebbe mai una società controllare ogni persona, maleducata o no che sia, che si reca a vedere, con buone o cattive intenzioni, la partita?
Ma lasciamo lì questo seme di dubbi a germogliare e torniamo al Lecco inteso come squadra. Ora noi non sappiamo se qualche dirigente della società lariana ci legge, nel caso lo facesse gli rivolgiamo un appello accorato: ridateci l’allenatore Butti, per favore. Oggi pure il giornale locale, sempre molto critico con il passato tecnico ammette, ed era ora, che con Butti c’era il gioco, ma mancava carattere alla squadra, mentre ora manca sia l’uno che l’altro (e non per dire, noi sono settimane che lo diciamo). Ora nel gioco del calcio, checché se ne dica, noi continuiamo a ritenere fondamentale che la squadra sappia per lo meno tessere delle trame, e non invece, come è ora, produrre soltanto un discorso privo di senso, fatto di parole (e di giocate) avulse le une dalle altre. Quindi ripartire dal gioco ci sembrerebbe già una buona cosa, che poi magari il carattere pure ti viene se vedi che l’ordito che crei dà origine ad una trama efficace (ed il Lecco di prima efficace lo era almeno un po’ di più).
E parlando di discorsi e di trame mi viene, sul finire, di dare anche una risposta al mio illustre parente, che si chiede e chiede ai suoi collaboratori di sapere perché si scrive. Io all’illustre parente do una risposta semplice: si scrive per farsi leggere. Dal semplice, ma per certi versi sublime “sono andata a fare la spesa” ad un mastodontico e intricato e lirico “Guerra e pace”, per me lo scopo della scrittura non varia: cioè trovare qualcuno che ti legga. Che questo qualcuno sia semplicemente uno o un milione, non rende lo scopo diverso, si scrive per offrire carte da decifrare, nella speranza, appunto, che qualcuno abbia la pazienza e l’accortezza di decifrarle. Ed è paradossale, ma anche molto bello e pregnante, che la scrittura sia resa viva non da chi la produce, ma da chi la consuma, e che questo, la rende paragonabile alla preparazione di qualche manicaretto. In tanti anni, insegnando più la lettura che la scrittura ai miei alunni, questo ho cercato loro di dire e quando hanno preso fra le mani il primo libro ne ho gioito internamente tanto, perché avevo aiutato a crescere persone che da lì in avanti avrebbero resa vera la scrittura, senza di loro, vuota.
Nella foto: domenica sul divano per il nostro inviato sui campi della Serie D Marco Bonfanti