di Marco Bonfanti
In alto i nostri cuori che il Lecco ha vinto una partita decisiva per non finire nella palude dei playout. In alto i nostri cuori che ha battuto una diretta concorrente nella corsa ad evitare di essere fra quelli che stanno peggio. Fuori dalla palude, allora, che oggi come oggi, e un certo Letta lo può ben testimoniare, a starci dentro si finisce assai facilmente impallinati. Ora noi saremo pure un’anatra zoppa, ma siamo, perlomeno per ora, fuori dai fucili puntati. Facile, dai, che ci salveremo, pur facendolo dentro un torneo che mostra, domenica dopo domenica, un tasso tecnico minimo e squadre sfilacciate e di gioco povero e assai approssimativo. Ciò nonostante non abbiamo mai per niente volato, ci siamo mossi così terra terra, siamo lì tra il chiaro e lo scuro e, come nella giornata di ieri, il grigio dentro e quello fuori sono l’unico colore che incornicia la gara. Ma comunque la vittoria è venuta, pur con il minimo scarto. Abbiamo segnato l’unico gol con una prodezza balistica (questo per dimostrare quanto possediamo il linguaggio da iniziati) del nostro avanti Capogna, il quale, ricevuto un perfetto passaggio filtrante dal redivivo Mauri, ha stoppato di petto con una certa eleganza e ha quindi fatto partire un tiro angolato e imparabile. Ed è quasi tutto qui. Il Lecco ha avuto altre due o tre occasioni, una pure ghiotta a porta libera, ma le ha clamorosamente mancate. Poi, come sempre, difetta alla squadra lariana un gioco decente. Se la difesa ruba palla e ci sarebbe da fare quella che in gergo si dice una ripartenza, bene, nessuno, salvo i tre all’attacco, riparte. Forse il Mister dice di stare coperti, soprattutto ieri che il tempo minacciava pioggia. Chissà. Fatto sta che tutti stanno ben fermi dove presumo gli si è detto di stare e così di contropiedi proprio non se ne parla mai.
Della squadra abbiamo quindi assai poco da dire e allora dedicheremo ampia parte di questo scritto a parlare dei singoli, anzi di un singolo. Parliamo di lui perché ieri ha fatto una cosa magica, che affonda le radici nella nostra travagliata infanzia, ma che non vogliamo svelare subito. Subito diciamo invece chi è questo singolo a cui vogliamo dedicare la centralità del nostro pezzo. Egli si chiama Tognonsini ed è arrivato da non molto nella nostra città. E’ un tipo, almeno per quel che si vede in campo, piuttosto elegante perché si muove con passi flessuosi e morbidi. E’ stato posto, ma forse già quello era il suo ruolo nel tempo andato, al centro della difesa, che lui, novello Baresi dei poveri, dirige con piglio deciso, dando ai compagni precise indicazioni su dove stare e come starci. Non essendo particolarmente giovane, viene da una lunga militanza calcistica. Io mi sono pure documentato, scoprendo così che ha fatto un’onesta carriera in squadre minori, non avendo mai raggiunto una qualsivoglia vetta calcistica. L’eleganza è il suo tratto distintivo, la precisione un po’ meno, perché i palloni che rimanda in avanti con studiata noncuranza, vanno, nove volte su dieci, agli avversari, ma, come già si diceva non è da questi particolari che si giudica un giocatore. Noi lo giudichiamo, infatti, per la magica cosa che gli abbiamo visto fare ieri: una sforbiciata. Spiegare, casomai ci fosse un profano tra i nostri lettori, cosa sia una sforbiciata non è per niente cosa semplice. Diciamo che in una sforbiciata il calciatore prima alza una gamba, poi l’altra in rapida successione e con quest’ultima colpisce la palla. Per quanto ne so la sforbiciata è un gesto calcisticamente del tutto inutile, ma che ha in sé una dirompente forza estetica. E’ cioè solo una cosa bella da fare e da vedere. All’oratorio, assieme alla rovesciata al volo, la sforbiciata rappresentava il top dell’arte applicata al gioco del calcio. Lo sforbiciatore era già oltre le normali attività pedatorie, si era librato in volo e aveva mostrato uno spicchio di cielo. Così ieri, grazie a Tognonsini, sono tornato a quei bei tempi andati, al centromediano metodista che, con quel gesto, mette l’imprimatur su di una intera partita.
E visto che di singoli si parla, con un altro singolo voglio finire. Questo singolo è il nostro direttore, mio tanto amato figliolo. Approfitto di questo scritto, un po’ di privato nel pubblico, per fargli i miei auguri forti di compleanno. Anche se è passato già qualche giorno, ci conto che lui gradisca lo stesso. Che dire. Quando i figli crescono i padri invecchiano. Credo che è per questo che si dimentica o si vorrebbe dimenticare un compleanno. Auguri!
NELLA FOTO IL NOSTRO INVIATO MARCO BONFANTI AL LAVORO PER BERGAMO & SPORT