Quando i Rossi di Köpenick, quartiere operaio della ex Berlino Est, battono un calcio d’angolo, dalle affollatissime gradinate dello Stadion an der Alten Försterei (si sta rigorosamente in piedi: a parte la nuova tribuna, costruita con il lavoro dei tifosi dell’Union qualche anno fa, il resto dello stadio è privo di seggiolini) si leva un tintinnio di chiavi, estratte dalle tasche di tutti i supporter, che crea un attimo di sospensione magica da film di Tim Burton: la motivazione del gesto, accompagnato dagli “oooh” prima della battuta del calcio da fermo, è dibattuta persino tra gli stessi tifosi della squadra (che qui, come in tutto il calcio tedesco, si chiamano Mitglieder, sostenitori: si pagano 120€ all’anno e si diventa membri del club, con tanto di diritto di voto, secondo il principio “una testa = un voto”, nelle questioni societarie, benefit vari, prelazione nell’acquisto dei biglietti e partecipazione attiva alle vicende della squadra): secondo la tesi più gettonata si tratta di un rito di auspicio con cui si vuole aprire la serratura della porta grazie a un gol, ma secondo altri è un richiamo al nome stesso del club berlinese: l’”Eisern” (ferro) di Eisern Union sta a indicare che questa era la squadra dei meccanici che sistemavano i vagoni dei treni e le locomotive e avevano a che fare tutto il giorno con materiale di ferro, come appunto sono chiavi e chiavistelli.
Quale che sia la reale motivazione, questo rito della tifoseria è solo uno dei tanti dettagli che raccontano una delle squadre più romantiche del calcio tedesco e, forse, europeo: non certo solo dal punto di vista sportivo (anche se è impossibile non considerare che nemmeno cinque anni fa l’Union era in Zweite Liga e che quest’anno parteciperà ai gironi di Champions League, con una squadra priva di assi conclamati e che anzi ogni anno cede i suoi pezzi migliori a formazioni più blasonate) ma anche e soprattutto per la sua storia e per un modo di vivere il tifo e la stessa esperienza-stadio che, sebbene non del tutto anomalo per gli standard tedeschi, è un unicum che meriterebbe di essere importato da noi.
Quanto alla storia, ormai in rete si possono trovare diversi articoli che la raccontano per filo e per segno: citiamo solamente il carattere da sempre antagonista e ribelle della squadra e dei tifosi, che erano “nemici” della squadra egemone della DDR, la Dynamo Berlin, collegata alla Stasi, la polizia segreta dei tempi della Germania divisa, e per questo “covo” negli anni ’70 e ’80 di ex hippie, punk, sbandati vari tutti uniti dal far parte di una base sociale popolare e non della nomenclatura. O ancora l’attaccamento viscerale dei tifosi, che per amore della squadra si sobbarcano, negli anni ’00, mesi di lavori volontari per ristrutturare lo stadio, nonché una donazione di sangue collettiva per rimpinguare le casse della società in tempi di crisi (in Germania si riceve un compenso, quando si dona il sangue): giova anche ricordare che l’Alte Försterei è il primo stadio del calcio professionistico tedesco la cui proprietà è parzialmente soggetta ad azionariato popolare.
Ma è per quanto riguarda il modo di vivere il tifo e lo stadio stesso che una giornata nella “Vecchia casa del guardacaccia” è un’esperienza che vale la pena fare.
Si possono citare molti esempi: l’accoglienza (in italiano) dell’Atalanta da parte dello speaker, salutata da un applauso della tifoseria e accompagnata a fine partita da altri saluti e ringraziamenti, sempre corredati da applausi, prima che dagli altoparlanti dello stadio risuonino le note dell’inno della squadra, cantato da una divinità punk (e lei stessa “Ossi”, ovvero nata nella ex Germania Est) come Nina Hagen.
Ancora, la zona antistante le gradinate, gremita di postazioni dove comprare birra, würst e frittelle, gestita da esercenti facenti parte dei sostenitori della squadra e quindi interni alla società (non come i baracchini nei piazzali degli stadi come da noi, insomma) e che diventa, prima e dopo il match, una scusa per passare il resto della giornata allo stadio con famiglia e amici: le file per accaparrarsi un panino e una birra sono chilometriche ancora un paio d’ore dopo il triplice fischio dell’arbitro ed è molto divertente stare a un tavolo a veder passare una umanità variegatissima e intergenerazionale, con anziani, bambini, famiglie, ragazze tutti bardati di rosso e bianco (o del verde della nuova e bellissima terza maglia dell’Union) che ridono e scherzano in un gigantesco terzo tempo.
Anche i cori e il supporto alla squadra sono interessanti: sostegno ininterrotto per 90 minuti unicamente con cori “pro” e mai “contro”, ogni giocatore che esce dal campo e il suo sostituto chiamati dai tifosi “fussballgott” (dio del calcio: d’accordo, forse un tantino esagerato, ma non sottilizziamo, mi limiterò a dire che da tifoso interista mi sarebbe risultato difficile chiamare in questo modo Gagliardini) quando lo speaker ne annuncia il nome. Del resto parliamo della squadra che, in occasione della prima partita di sempre in Bundesliga, quattro anni fa, espose le foto dei tifosi defunti e che quindi potevano in questo modo partecipare a quel momento storico del club che avevano seguito per tutta la vita.
E poi un modo di vivere la vicinanza coi tifosi da parte della squadra per noi quasi alieno. Niente stelle che sfrecciano a bordo di un SUV o di una fuoriserie subito dopo la doccia, qui: non di rado sui social i tifosi postano foto di giocatori della prima squadra che dopo la partita rincasano tranquillamente sui tram; stavolta, dopo la partita con la Dea, a fine match mister Urs Fischer e tutti i giocatori sono stati un paio d’ore fuori dagli spogliatoi a firmare autografi e fare selfie con tifosi grandi e piccini.
Altri esempi di un modo di intendere l’attaccamento alla squadra viscerale e non solo sportivo? Appena fuori lo stadio, un allevamento di api con relativa produzione di “miele dell’Union”, iniziative costanti per i bambini durante l’anno, campagne di accoglienza per i rifugiati e volontariato negli ospedali, ma anche una politica di prezzi popolare, che non rende l’andare allo stadio una cosa da ricchi come purtroppo sta accadendo in Italia: semmai, qui, l’unico problema è che l’Alte Försterei è troppo piccola, se si pensa che i Mitglieder sono più di 40.000 e i posti solo la metà, così che in occasione dei match casalinghi la società deve organizzare una vera e propria lotteria, in modo che ognuno abbia la possibilità di andare a vedere i propri beniamini almeno una volta (questo è anche il motivo per cui le partite di Champions League verranno disputate nel ben più capiente Olympiastadion, casa abituale dell’Hertha Berlino, squadra della parte Ovest della città, in modo che più supporter possibili possano festeggiare questo incredibile traguardo sportivo).
Insomma, essere Unioner significa fare parte di una collettività, di una comunità che si raduna a partire dal calcio ma che si lega a molto di più: un territorio, per esempio, una appartenenza in cui non sono sicuramente i (più che lusinghieri) risultati sportivi il collante e in cui il calcio è cultura, nel senso di socialità, politica, umanità e non (solo) business.
In fondo, qualcosa che in realtà per chi ama l’Atalanta non può certo suonare molto distante.
Manuel Lieta