di Matteo Bonfanti

Tranne che a Mapello, dove hanno spalato la neve alla velocità della luce, domenica sugli altri centootto campi della Bergamasca c’era la neve. E quindi non avevamo il giornale da fare. Eppure eravamo tutti qui: io, Marco e Monica in redazione già a mezzogiorno. C’era l’Atalanta, quella di quest’anno, che ti lascia sempre l’amaro in bocca e si finisce per guardarla di traverso. Non ci si fida mai completamente perché è una Dea incompiuta. Anche quando gioca bene, corre e fa gol, succede che ad un certo punto molla e crolla. E la cosa dà sconforto, incasina il pomeriggio. Quindi se ci sono i nerazzurri in tv, si fa qualcos’altro, si cerca di disinteressarsene.
Io facevo il deejay malinconia, mettendo dal mio computer musica ad alto tasso depressivo, De Gregori e Capossela, ma anche cantanti ancora più tristi, tipo i tanti che copiano Baglioni e il primo Tiziano Ferro, quello che non aveva ancora fatto outing ed era preso malissimo tra sere nere, perdoni, rossi relativi e altri drammi affettivi di una certa rilevanza.
Monica guardava Uomini e Donne, che non so che trasmissione sia, la confondo con Amici per via che in entrambe c’è la De’ Filippi, che dev’essere anche una brava persona perché è assai in forma, ma continua a stare insieme a Maurizio Costanzo che invece pare un nonnetto affaticatissimo. Sicché Maria, dico la conduttrice, probabilmente ha il cuore della crocerossina e merita i miei applausi.
Quanto a Marco, l’ultimo della nostra triade, era immerso nella nostra prossima vacanzina, guardava le offertissime, i voli low cost da Orio e gli infimi alberghetti presenti nelle varie capitali europee. Ogni tanto analizzava su qualche bacheca gialloblù il momentaccio del suo Verona. Difendeva Mandorlini perché se è vero che gli scaligeri fanno un sacco pena, c’è da dire che hanno perso Iturbe che l’anno scorso ci deliziava e pure Romulo, uno che correva su e giù e pareva un ossesso dotato di undici polmoni.
Perché nessuno di noi era con la rispettiva famiglia di appartenenza visto che non avevamo una beata minchia da fare? Perché né a me né a Monica né tantomeno a Marco è minimamente balenata l’idea di farsi un bel pranzo domenicale con mamma e papà, ad esempio? Oppure dai nonni? O, nel mio caso, con moglie e figli? La risposta è semplice e pure divertente: perché siamo giornalisti sportivi, la gente più stramba che c’è a pari merito con altre due categorie di persone, chi intraprende la carriera di popstar e quelli che fanno gli educatori nel sociale. Ma lasciamo perdere i cantanti e chi segue i ragazzi in difficoltà e concentriamoci solo su di noi. Se a vent’anni uno si mette a scrivere di pallone, spesso malpagato e frustrato, può essere che lo fa, anche, perché ha la passione del gioco a zona e del catenaccio. Ma l’obiettivo vero resta un altro: diventare una presenza eterea per i propri parenti, qualcuno che ha in mano una giustificazione coi fiocchi e i controfiocchi, di quelle che non fanno una piega. Si fa i cazzacci suoi, ma con garbo perché vorrebbe essere presente al cenone coi cugini che arrivano apposta da Bologna, ma non può: c’è la partita. “Dov’è Matteo?”. “Aveva la sfida salvezza dell’Atalanta”. “Arriva?”. “No, poi c’erano le finali del Trofeo Preda da mettere sul sito”. “E stanotte?”. “Gli è venuto in mente un commentino da fare sull’inaspettato cambio sulla panchina dell’Arzago. Guarda, è un dramma: sono terzi e hanno cambiato il mister. Finirà tardissimo. Stremato”. “Che bravo, quanto lavora quel ragazzo…”.
Agli occhi di chi non lo è, il giornalista è un martire. In questo ci hanno aiutato anche i film e i libri sul tema che raccontano di uomini e donne abbruttiti da migliaia di sigarette, inseguendo un maledetto scoop. E va anche detto che cronisti del genere ce ne sono pure parecchi, quelli che seguono la cronaca nera e la giudiziaria, gente che ha dentro il demone di svelare i misteri e che spesso, proprio per questo, rischia la vita. Chi, invece, fa lo sport (o peggio ancora i colleghi degli spettacoli) fa un altro lavoro. E in un giornale come il nostro, che parla solo di pallone, se la sollazza. Pare di essere alle superiori, in Quinta B, ma senza il professore. Si parla un sacco con chi arriva, spesso mariti in pensione, assai disperati, bisognosi di sapere quando tornerà Estigarribia, quasi fosse che dal recupero del laterale paraguaiano dipendessero le magnifiche sorti e progressive della nostra nazione. Con loro si aspetta l’aperitivo e anche lì, al bar dei cinesi, ci si perde via a chiacchierare. Alla prima birretta il quesito è poco rilevante (“ma per te dopo l’operazione al crociato si può tornare a essere il giocatore di prima?”), alla quarta si fa filosofia, entrando nelle grandi domande della vita (“tornerà mai l’ala destra?”, “ci sarà ancora un mediano picchiatore?”, “c’è una relazione tra la scomparsa del ruolo del libero e la crisi economica in Italia?”).
E il tempo passa. E a casa il cenone è già finito. E i cugini di Bologna hanno già imboccato l’autostrada. E ti chiamano per sapere se dopo tutto quel lavorare sei ancora vivo e vegeto. E non sanno che hai ancora da iniziare perché ti è rimasta addosso una domanda da centomilioni di dollari: “Ma se Maradona non si fosse pippato tutta quella cocaina, avrebbe vinto gli stessi Mondiali di Pelè?”.
Nella foto – La collega Monica Pagani impegnatissima nella visione di Uomini e Donne