Ieri ero col mio cane, Savier, erano più o meno le otto di sera ed ero a una manciata di metri dallo stadio ed ero immerso nel viaggio di questo mio momento difficile, la prima querela in una carriera ventennale, gli avvocati, l’ordine, i colleghi, i sindacati, un processo da affrontare a distanza di anni, col mondo cambiato, nell’ansia e nel mal di stomaco che dà la giustizia perché presenta il conto lontano lontano nel tempo. Ero triste, estraneo a tutto quello che stava accadendo intorno a me. A un certo punto mi sono fermato, colpito da qualcosa di bellissimo, una bimba con la treccia, prima o seconda elementare, la gonna a quadri e i minuscoli collant, vestita a festa, a mano col suo papà, un ragazzo alto, forte e solare, sorridente e col cappello e la sciarpa dell’Atalanta. Andavano verso i loro due posti allo stadio, penso in Curva, parlavano e ridevano, chiacchieravano di Ronaldo e Zapata, li mettevano a confronto, ma soprattutto si abbracciavano. Ogni tanto la piccola finiva in braccio. Partiva il solletico. Come a una festa.
Ho lasciato Savier sul divano, sono andato in redazione a lavorare su una dozzina di pubblicità per il giornale di lunedì. Non sono atalantino, non posso esserlo, sono un giornalista, ma mi veniva da sbirciare la partita perché già alla vigilia era Davide contro Golia. Poi, al fischio dell’arbitro, ancora di più: i poveri contro i ricchi, gli operai contro gli architetti, i bambini contro i grandi, il talento contro la potenza, il dubbio contro la certezza, la novità contro la tradizione, la poesia contro la prosa, soprattutto il sogno contro il potere. E la folle Dea, sbarazzina e irriverente, era la padrona e la sola protagonista di una sala da ballo calcistica che per una volta pareva una favola da Mille e una notte. Come a una festa.
Al triplice fischio aspettavo i pezzi dei ragazzi, Simone, Mattia e Michael, mi sono detto “stanno vivendo un po’ di storia, sarà un casino, lasciamoli nel loro brodo senza rompergli i maroni, tarderanno. E’ giusto così”. E sono andato in un bar qui in zona, frequentato da un sacco di ultrà, alcuni credo diffidati, di quelli che devono stare almeno almeno a due chilometri dal Comunale. Erano fighissimi e stargli accanto non era bersi una birra senza pretese come mi capita di solito. C’erano canti e illusioni, Champions, Manchester e Guardiola, c’era la celebrazione di un popolo, quello bergamasco. Come a una festa.
Ho bevuto una Tennents, sono tornato in ufficio. Sono arrivati gli articoli, bellissimi, la cronaca e le pagelle, poi le parole del Gasp, l’allenatore, che deve essere anche un duro, ma pure una persona che frequenta il mio stesso angolo di cielo, quello dei sogni sempre e comunque, a prescindere. Diceva: “Non è per la mia gloria, questa è la sera più bella della mia vita perché vedo ad ogni angolo gente felice”. Come a una festa.
E io, misero burattinaio di parole, querelato e nel casino, ho pensato alla mia bambina dalla gonna a quadri e dai minuscoli collant, ieri sera all’Atalanta col suo splendido babbo, e mi sono commosso, immaginandoli appiccicati in Curva ai gol di Zapata. Come a una festa.
Quella del calcio.
Matteo Bonfanti