Tentando improbabili selfie allo specchio, giusto per capire come si fa, provo a stare un attimo tra me e me, come mi succede di rado, insomma quasi mai. Intanto mi chiama la luna, che è appena fuori, sul terrazzo. Poi Zeno, il mio secondo, arriva e passa a tirarmi due menate chiedendomi se Villareal sia una città, uguale a Torino o a Brescia, o solo il nome di una squadra, tipo Juventus o Atalanta. Farfuglio e sbigno su internet, gli consegno la risposta esatta, quindi riparto allo specchio, a chiedermi chi sono.
Sono lì e lì, concentrato, a domandarmi cosa voglio fare da grande, adesso che ne ho addirittura quarantacinque e tutti mi vorrebbero scrittore invece da quattro mesi faccio il venditore di spazi pubblicitari, ed ecco Vinicio, il mio primo, che ha da ripassare spagnolo perché domani ha la verifica, il tema verterà sulle posate, io so solo “calle”, in italiano “strada”, per via di una canzone di Manu Chao ascoltata mille volte da ragazzino. Quindi non sono utile. Così gli do cinque euro di mancia e mi libero al volo dell’impegno preso col mio scet più alto di me. Lo faccio in modo dolce, ma fermo, e mi rimetto tra i miei improbabili selfie allo specchio, immerso tra altrettanti pensieri che con le stelle in cielo stanno in mezzo al cuore, dico tra l’anima e l’universo che ci sta tutto intorno.
Chi sono? Dove sto andando? E alla mia età non è facile rispondere perché il campo è diventato ormai infinito. Penso di essere soprattutto un padre, di essere stato un figlio, queste le certezze. Credo di essere un giornalista per via che scrivo sempre, qualcosa tipo un vizio, come i mozzi e le birrette, e che mi accompagnerà per sempre, tipo a ottant’anni, con la cronaca dettagliata della visita al cantiere vicino a casa mia, con Ermal, Gre e Pablo, i miei soci orobici. Ma sono pure un commerciale, un grafico e cento volte il teatrante con la chitarra e con la valigia di cartone sulla sua maghina, la Pandona Aranciona a Metano, che quest’anno diventa un’auto d’epoca essendo dell’anno 2007.
Pensieri già troppo profondi, mi salva mia mamma, che è qui con suo marito, Ernesto, a darci da mangiare. Mi racconta di Edo e di Ceci, i figli di mio cugino Simone, i più piccoli della mia stirpe, ormai grandi. E ridiamo, manco più ricordo per quale scena descritta alla Feltrinelli di Bologna. E grazie a loro, in ordine d’apparizione Zeno, Vini, Valeria, Erni, Edo e Ceci torno leggero, finalmente, come sono io, che canto sulla Panda, anche con le zavorre vissute da noialtri negli ultimi sei mesi qui al giornale, tra covid e personaggi strambi, senza qualità né la minima moralità che si insegna come prima cosa ai bambini.
Serve dimenticarsi delle offese, perdonare e poi ridere, tornando a passare le sere alla cazzo, a tentare di farsi selfie allo specchio, proprio come fanno le fighe sui social, che sembrano felici e magari lo sono per davvero.
Ps – Grande Dea e super Boga
Matteo Bonfanti