Mi sono sempre sentito poco intelligente: pessimo in matematica, imbarazzante in fisica, assente in chimica, la mia prof del Liceo, la famosa e famigerata Balossi, all’ultima interrogazione di Quinta, un attimo prima degli esami, per prendermi per il culo mi aveva chiesto le frazioni. Stava sempre in piedi, quella volta si era seduta, divertita e rilassata. “Interroghiamo Bonfanti” e la mia splendida classe era partita all’unisono con la musichetta del circo, “papa-para-papa-para-papa-para-papa-para…”. Compagni geniali, li amo tutti anche ora, persino i tre di Comunione e Liberazione, poveri, silenziosi, direi disperati in mezzo a noi peccatori che già allora facevamo l’amore, le canne, ogni peggio cosa divertente.
Lei, dico la Balossi, la mia insegnante delle materie scientifiche, che adesso sarà vecchina e che di nome fa Barbara, si era messa a ridere, la prima ghignata dopo tre anni, e aveva cominciato l’interrogatorio trattando la mia resa incondizionata: “Se stai al posto ti do quattro perché non ci fai perdere tempo, se esci potrei darti anche due. Che fai?”, “Vengo, prof, me la rischio perché ho bisogno di sentire un po’ di intimità con lei che è così bellina e che mi vuole tanto bene”. E avevamo giocato, nell’assurdo, alle scuole elementari, “Bonfanti, facciamo che ti dico due terzi, in quanto è divisa la nostra torta?”, “Prof, in due”, “no, Bonfanti, in tre…”, “ok, prof, ma preferisco essere chiamato Matti. Nel caso io la chiamo Babi”. Così per dieci interminabili minuti, con una ventina di altri pezzi di torta, lei nella totale soddisfazione di verificare per l’ultima volta quello che aveva sempre sostenuto nei consigli di classe litigando col mio prof di italiano, il mitico Puccio, ossia che io fossi demente, io nella tranquillità di chi se ne fotte altamente dei numeri, orgoglioso di non sapere che minchia fa 3 alla terza per 4 alla quinta diviso 12 alla sesta tra quarantaquattro parentesi quadre, graffe e rettangolari. Leggevo libri sotto il banco, avevo appena finito gli autori russi, ero nel periodo del neorealismo italiano, stavo tra la luna e i falò, i miei problemi erano lì, solo lì.
Mi sono sempre sentito poco intelligente, ora no. E non è perché ogni giorno incontro almeno una persona che mi dice che scrivo bene bene e che me ne chiede un pezzetto, giustamente perché le parole sono di tutti e io semplicemente le raccolgo. E’ per il resto, quello che mi gira intorno. Parlano di guerre giuste per un cavolo di confine, di razzismo sacrosanto, ammazzano per possesso le donne che amano. E non sono tre persone, una manciata di matti di quelli che curavo quando facevo il servizio civile, ma la maggioranza della mia gente. E io, in tanta miseria intellettuale, per la prima volta mi sento intelligente.
Ero in Krajina durante un’assurda e disumana pulizia etnica al centro dell’Europa, portavo beni di prima necessita ai serbi nascosti nelle fogne, tornavo nel mio lussuoso albergo e vomitavo dal dolore, ignoro dove siano nati i miei amici e non mi interessa perché so che l’importante è il loro cuore, non la provenienza, quando ho litigato con una donna che amavo, le ho sempre e solo prese, pugni in faccia e calci sugli stinchi, mai mi è venuto il pensiero di alzare un dito.
Sono intelligente. E mai come ora vorrei lo fossero tutti.
Matteo Bonfanti
Nella foto sono da ragazzo, al Liceo