Che poi per me scrivere è ogni volta come essere in vacanza. Mi metto col foglio a righe e con la penna Bic e d’improvviso mi sento disteso nel mio mare, l’Adriatico, con la sabbia tutta intorno e le onde sulla testa. Oppure mi scopro dentro a un fiume, a tre passi dal ponte di Brivio, coi pesciolini piccini picciò a farmi il solletico ai piedi o, ancora, mi accorgo che sto ascoltando i grilli che prendono il sole lungo quel sentiero che dalla Valle Seriana porta diretti al paradiso. E in cortile i quattro piccioni diventano i gabbiani di Sepulveda, pronti a emigrare verso l’oceano che sta di là dal mondo.
Sono qui, rinchiuso da dieci giorni nel salotto della mia casina, a Bergamo, con le imposte chiuse per non fare entrare i quaranta gradi che scaldano il porfido delle nostre strade. Leggero e nudo, vivo nella speranza che i miei domiciliari da Covid finiscano domani, il 12 agosto dell’anno 2021, data che segnerò sul calendario della mia anima, ricordandola sempre e per sempre. Ho il tampone, ma non di quelli che si comperano al supermercatino di via Santa Caterina. Ho il test serio, figo, ufficiale, fissato dal mio medico di base, di quelli che valgono perché sono fatti all’ospedale e che ridanno un sacco di cose insieme, l’estate, la libertà, gli aperitivi, lo stadio e l’Atalanta, il Gorle e il Cavernago, il mio lavoro, l’Italcementi, i baci, le carezze e gli amici, la possibilità di andare, di fare e di disfare, di suonare, di battere e levare.
E nell’attesa dovrei dire qualcosa di importante sui vaccini, se sono buoni o cattivi, che sono mesi che rifletto su cosa devo fare in questo nostro gran finale con la peste del 2000, il Coronavirus, una guerra che qui da noi dura da quasi due anni, in grado ogni volta di stravolgermi, di farmi perdere il calcio che è il mio mestiere, di farmi piangere e incazzare, di obbligarmi ogni giorno, ormai a quarant’anni, a reinventarmi, perché sono un padre di famiglia e senza soldi non posso stare. E poi pure una mia amica me l’ha chiesto, proprio oggi, di sfuggita, “sei una voce libera, fai il punto, è utile, sarà un aiuto per chi ancora non sa che cazzo fare”.
E potrei dire quello che sento, ma sarebbe solo il mio istinto, insomma la mia pelle, perché non sono un virologo, ho avuto la malattia in forma lieve lieve, come le influenze che avevo da ragazzo, e sono uno di quei giornalisti che racconta i suoi dubbi, l’esatto contrario dei colleghi famosi che percorrono sicuri la strada che porta al Sol dell’Avvenire. Non avessi qualcosa di più importante nel mio cuore, spiegherei che bisogna vaccinarsi contro la mala politica che ci circonda, gli avvocati che stanno a capo della nostra sanità grazie a una tessera di partito, quelli che lo scorso febbraio decidevano che i malati dovessero essere mandati nelle case di riposo, gli stessi che nel famoso marzo si sono opposti alla zona rossa, qualcosa che avrebbe salvato tutti, le persone che ancora comandano i nostri ospedali. Direi che il vaccino che dovremo tutti fare, sarà quello di andare a votare. Per cambiare.
Ma più di questo, a me questo nuovo tempo sospeso regala di nuovo il solo insegnamento della mia vita, scoperto una mattina di pioggia di trent’anni fa, e che vorrei fosse di tutti, dei miei figli e dei loro amici, della gente che amo, perché mi tiene da sempre al riparo dalla malinconia: io, con una penna e con un foglio, posso decidere al volo di essere a Venice, a New York, a Cervia o a Cesenatico, perché mi basta solo chiudere gli occhi per avere l’intero cielo in una stanza.
Matteo Bonfanti
Dove sono ora a casa mentre scrivo, con Manila e Vinicio su una spiaggia al mare, proprio come undici giorni fa