di Marco Bonfanti

E’ ricominciato ieri, con l’anticipo anche televisivo, fra Lecco e Mapello Bonate il mio, mio e di alcuni fidati amici, viaggio nella serie D. E io ho pensato di ricominciare a scrivere su questo sito che mi dà una filiale opportunità. Ma il viaggio, con i suoi colori e sapori, l’avevo già fatto lo scorso anno e quindi andava, necessariamente, cambiato taglio e approccio. Allora, per quest’anno ho deciso di soffermarmi su alcuni personaggi che danno un qualche spessore a questo nostro andare.  Vorrei  chiamare questa rubrica “i figuroni”, dacchè la mia, peraltro scarsa, cultura calcistica l’ho interamente appresa, nel tempo che fu, dai mitici “figurini”, che erano di carta.  Questi invece, di cui parlerò, sono giocatori veri, in carne e ossa, da cui, per l’appunto, i figuroni.  Ecco, fatta la debita e spero non troppo prolissa premessa, vengo al figurone di ieri, emerso nella solatia partita disputata tra Lecco e Mapello Bonate. Il figurone della squadra ospite ha un cognome e un nome e fa Gabellini Matteo e porta, in campo e sulle spalle, il numero undici. Parlo di lui perché, nella partita vista, egli ha incarnato quello che è il titolo di un libro e film recenti e di un qualche successo: “La solitudine dei numeri primi”, ricordando che l’undici è, per l’appunto, un numero primo.

Gabellini, avendo l’undici sulla maglia, è quindi un’ala sinistra, secondo la definizione che di lui si sarebbe data quando il calcio era ancora ruspante.  Ora, secondo l’attuale gergo, è un laterale di fascia, ma insomma, ala o laterale che sia, sta nella zona del campo estrema, quella cioè più o meno vicina alla linea laterale.  E in effetti è lì che il Gabellini giocava.  Ora c’è da dire che il Lecco giocava con la zona. Ma non a zona, cioè coprendo con decisione ogni parte del campo, ma in zona, quindi con la tipica vaghezza di chi non vuol far sapere con esattezza dove si trova. In pratica come il figlio un po’ discolo che di fronte al genitore incazzato che gli chiede dove  è stato risponde: “in zona” “in zona dov’è?” “in zona, no!” ecco il Lecco stava così.  Allora Gabellini stava nella parte estrema del campo e in quella zona non c’era mai nessuno del Lecco che volesse o pensasse di starci. Matteo era costantemente solo.  Devo aggiungere, per dovere di cronaca, che questo è avvenuto nel secondo tempo, o perlomeno io l’ho osservato allora, perché stavo in quella fetta di tribuna che era prospiciente a quella parte del campo.

La solitudine di Matteo ha suscitato in me un moto di simpatica affinità. Infatti vedevo in lui l’immagine di me, di quando ho sbrigato tutti i miei affari casalinghi familiari  e lavorativi e mi trovo di fronte a una sconfinata libertà e mi chiedo; “ e adesso?” non sapendo bene  cosa farmene di cotanta libertà . Insomma, è come quando si sta in un oceano o  in una prateria di possibilità, ma sia che ti manchi la barca o che ti manchi il cavallo, le possibilità sconfinano con una mal sopportata solitudine.  Comunque Gabellini stava lì da solo, ma nessuno dei suoi compagni si degnava di passargli la palla, per cui solo era e solo rimaneva.  Gabellini stava a sinistra e la sua squadra giocava costantemente a destra, dove, peraltro, la circolazione era piuttosto intasata.Perchè lo facesse, la squadra, resta per me un mistero.

Scarto i motivi politico-ideologici, dacchè il nostro illustre  direttore  in questo stesso sito ci ha ben istruito sul fatto che destra e sinistra non esistono più. Scarto che il Gabellini non goda della fiducia del mister e quindi sia stato lui a dare disposizioni in tal senso. Infatti  il signor Astolfi ha cambiato, nel corso della partita, tre giocatori, ma Matteo l’ha lasciato in campo, quindi al Gabellini la fiducia non manca. Sarà quel che sarà, di palloni la nostra ala sinistra non ne ha proprio visti. Eppure egli portava questa sua solitaria  condizione con indiscussa dignità. Infatti non si sbracciava che poco per richiamare l’attenzione degli altri e quando i compagni insistevano a destra e perdevano la palla, egli faceva un gesto di rassegnazione, ma piccolo e quasi insignificante.  E poi, e poi, giacchè esiste un Dio del pallone, al Gabellini arriva finalmente un passaggio filtrante ed egli si trova a tu per tu con il portiere.

Dentro di me ero in fibrillazione, perché se Matteo avesse segnato, eh sì che cambiava tutto. Egli avrebbe potuto, trionfante, tornare a centro campo e davanti ai compagni renitenti dire :”cazzo, qui ci voleva proprio, mi avete dato un pallone e ho segnato, pensate un po’ se me ne davate qualcuno di più”.  E Matteo è davanti al portiere che gli copre lo specchio della porta. E lui tira e tira anche bene, ma l’estremo difensore la para, respingendola. Ora la partita prosegue. Lui torna lì al suo posto, laddove deve stare, senza rifornimenti. Soldato giapponese a difesa di una porzione di terra quando la guerra è finita. Sentinella nella notte di figure intraviste nel buio, forse solo immaginate. Albero al vento, fiore non colto.

Ah, se Matteo avesse segnato quel gol!