di Matteo Bonfanti

Complici l’ultimo libro di Roberto Saviano e la mia Vespa parcheggiata da un paio di settimane a quaranta chilometri da casa mia, passo parecchio tempo a domandarmi perché, ormai da diciotto anni, abbia un giorno sì e l’altro pure il bisogno di scrivere. Articoli di pomeriggio in redazione, canzoni di notte sul divano, semplici pensieri su facebook, magari dal cellulare, quando scende la sera. In moto canto a squarciagola (e sembro matto); senza, cammino e penso.
Mi confronto con l’autore di Gomorra, la sua prosa nervosa, le frasi brevi, i suoi motivi, l’idea nobile che sta dietro ai suoi libri: la verità che non deve essere di pochi, ma di tutti, anche a costo di vivere blindato per raccontarcene gli inquietanti particolari. Stimo molto Roberto, lo ritengo l’ultimo grande cronista italiano senza paura e senza padroni, mosso unicamente dal fuoco sacro del giornalismo, quello del mio primo caporedattore, Dario Cercek, o del mio allievo prediletto, Isaia Invernizzi, o di un altro Roberto, Pelucchi, che non può nemmeno andarsi a bere una birra in centro perché rischia di prendersi due ceffoni da qualche ultrà dell’Atalanta. Il suo peccato? Averci spiegato come vanno le cose nel dorato (e a volte maleodorante) olimpo della Serie A.
Io sono diverso. Non ho lame taglienti destinate alle pance abbondanti dei politici che rubano o dei mafiosi che ammazzano o degli imprenditori che evadono o dei campioni che imbrogliano. Le mie parole sono per me, mi riscaldano se fuori piove oppure mi cullano. Amo sceglierne i colori, leggo e rileggo, mi appassiono ai suoni. Vado avanti e poi torno indietro, spesso di corsa, come un acrobata. Mi piace immaginarmi: scoprirmi a danzare lungo il filo sottile della speranza in un Paese migliore, sognando di farne parte se mai arriverà.
Anche per questo mi sono occupato quasi sempre di sport locale. Ho avuto un paio di parentesi tra le nuvole dense, scure e gonfie di lacrime della cronaca nera. Ci sono andato a sbattere. Non faceva per me: piangevo io, piangevano i miei lettori, piangeva mia mamma, piangevamo un po’ tutti e non era il caso di mettere il mio ulteriore carico da mille in storie già tanto disgraziate. Nel pallone dei dilettanti c’è la mia dimensione: molti sono i buoni e ogni domenica mi arrivano tra la pelle e il cuore racconti che paiono favole, cartoline spedite da un’altra Italia, l’unica che ancora tiene agli ultimi: i ragazzi che non trovano il lavoro, gli extracomunitari che non ce l’hanno più, i bambini di parecchie famiglie disperate. Nel piccolo paradiso del calcio provinciale ogni atleta va aiutato. Presidenti e dirigenti come Roberto Regazzoni, Roberto Paratico, Paolo Grigis, Ottavio Rota e Olivo Foglieni, giusto per citarne una manciata, sanno che una medicina ai mali della Bergamasca ce l’hanno a portata di mano, sul campo del loro club. E sentono il dovere di impegnarsi in prima persona. Rinunciano allo yacht, alle vacanze alle Seychelles, a una vita da nababbi per una missione, cattolica o comunista a seconda del vostro angolo di cielo. E’ quella di dare la possibilità ai giovani del paese di giocare: due ore sull’erba, un’altra negli spogliatoi a far la gara a chi ce l’ha più lungo, per sentirsi tutti uguali. Perché un dribbling a centrocampo, un passaggio filtrante per la punta, un gol su punizione o la doccia a sparar balle fanno dimenticare persino la faccia triste di un padre che non sa dove andare a sbattere la testa per trovare i quattro soldi che gli servono per  fare una spesa dignitosa al supermercato.
Torno al mio rapporto col giornalismo perché questo è il modesto e circoscritto tema di una domenica dove c’è solo la D e il ko del nuovo AlbinoLeffe di mister Gustinetti (dispiace, Elio). Non sono Saviano, non ne ho la febbre, ma neppure Invernizzi né Pelucchi, i miei coraggiosi e indomiti eroi bergamaschi. Da un mese ho nel cassetto due vicende del peggior malaffare, mi sono capitate addosso per caso e non so bene cosa fare. Nel frattempo lascio che passi il tempo, evitando di verificarle. Lo facessi, sarei obbligato a pubblicarle. Non ho paura delle conseguenze a cui, comunque, so già che andrò incontro (perché sono sicuro che finirà che me ne occuperò). Non temo né le smentite di rito né le querele che, quando si scrive la verità, se arrivano, si dissolvono nel nulla. Se faccio melina è perché quel che ho saputo non ha la minima poesia, ma solo i quintali di squallore che si porta dietro la nostra nazione, tra le poche dove capita spesso che a fare i soldi sia chi bara e non chi vale. Preferisco i cinquanta metri di scatto di Esposito, capitano del Brembate Sopra, in fuga dalla difesa per salvare la vita al massaggiatore avversario. In lui c’è quello che ho bisogno di raccontare per stare in redazione al calduccio, sentendomi come a casa: sotto la copertina, incollato alla tv a vedere la saga che amo, i sei episodi di Star Wars.
Non ho la tempra di Saviano e degli altri giornalisti come lui eppure mi fa arrabbiare che Roberto sia costretto a vivere sotto scorta. E mi fa incazzare che ci siano colleghi o rappresentanti delle istituzioni che si permettano di attaccarlo in pubblico o sui social network. In quei commenti avverto una preoccupante macchia d’olio che si allarga da più di un decennio: l’insulto gratuito al giornalista, comunque colpevole. E l’odio, soprattutto, per chi di noi fa inchiesta. Di contro la solidarietà è pressoché nulla. Parlo anche di quanto è capitato a Francesco Merlo, opinionista che adoro, finito nel mirino del Movimento Cinque Stelle.
C’è un fascismo strisciante in un’ampia parte della popolazione, un sentimento trasversale, comune a chi fa affari con la cocaina come a chi detiene il potere politico o a chi lo vorrebbe conquistare nel prossimo giro elettorale. Si avverte, subdolo, nelle frasi dei pochi grandi industriali rimasti al Nord o in chi va alla partita in curva o in chi blocca le strade coi forconi. E cambia le mie parole, da rosa e azzurre le fa diventare nere, brutte e buie. Al mio Zeno, cinque anni, e al mio Vinicio, sette, piacciono solo se sono colorate.