Trocchia_Igordi Matteo Bonfanti

Testa, tacco, rovesciata, Igor Trocchia. Ma anche mischia in area, gente che si strattona, difensore che liscia il pallone, sfera che rimane lì, Igor Trocchia che la butta dentro di ginocchio. Per chi scrive Igor Trocchia non è solo un numero nove, ma anche un sette, un dieci e un undici perché nei suoi vent’anni di carriera è stato prima Neymar, poi Donadoni, Messi, Ibra, quindi Inzaghi. Ce lo ricordiamo trequartista tutta classe e dribbling da fenomeno con la maglia del Verdello; punta che ama entrare nel gioco nel quinquennio col Castel Rozzone; centravanti spietato, quello che fa incazzare perché magari non si vede per ottanta minuti e ti fa una doppietta a tempo scaduto, col Bergamo San Francesco; chioccia dall’eleganza sopraffina nel Monterosso. Il ruolo cambia a seconda dell’età, ma se uno è bravo i gol li fa sempre ed è quello che conta nel pallone. Si dice: quel giocatore fa la differenza. Ed è quello che ha sempre fatto Igor Trocchia che a 42 anni appende le scarpette al chiodo raccontandoci una vicenda meravigliosa: quattro lustri di pallone nella Bergamasca.
Igor, partiamo dall’inizio: dalle giovanili del Napoli all’oratorio di Dalmine. Come è successo? «Abitavo a Ponticelli, un bel quartiere del capoluogo campano. Poi c’è stato il terremoto e i miei genitori, entrambi statali, hanno chiesto il trasferimento nel nord Italia. Dovevamo andare a Prato, il destino ha voluto che la mia famiglia finisse a Dalmine. Era il 1984, io ero già innamorato del pallone. Giocavo un po’ in porta, un po’ fuori. A Napoli dicevano fossi un “cazzimma”, uno col fuoco dentro, refrattario alle regole. Così anche a Dalmine, in strada, dove dribblavo tutti. Pochi mesi dopo indossavo la casacca del Ver Berg, una società dell’oratorio che adesso non c’è più».
Da Dalmine vi siete trasferiti a Bergamo, in Borgo Palazzo, e tu dopo un paio di stagioni ad Albegno, sei stato acquistato dal Verdello, il massimo. «Sì, Verdello all’epoca era con la Stezzanese e la Romanese il top del calcio orobico. Io ero stato preso per giocare con gli allievi regionali. Il tecnico era mister Foppa, uno col pallone sempre in testa, fissato. Ma anche una persona buona, felice. Ci faceva lavorare parecchio, ma sempre facendoci divertire. Io giocavo trequartista e sapeste le volte che mi diceva di passare il pallone. Gridava: crea la superiorità numerica e passala. Ma io facevo finta di non sentirlo, dribblavo i difensori e andavo in porta. Volevo fare gol».
A sedici anni l’arrivo in prima squadra, una big di Promozione, l’attuale Serie D. «In una formazione fortissima. L’allenatore era Bernasconi, uno che aveva giocato in Serie A e aveva fatto persino qualche presenza in nazionale. Ma gli undici non li decideva lui, ma i vecchi. Mostosi e Raimondi erano dei veri e propri fenomeni e di noi giovani non si fidavano. Taietti, che era un ex atalantino, mi portava agli allenamenti. Nel tragitto si fermava sei volte, sei bar e altrettante birre. Eppure quando entrava in campo, faceva la differenza. Io ero giovane, sempre in panchina e i senatori mi facevano arrabbiare. Entravo sempre all’80’. Penso alla prima volta con loro, sfida di Coppa Italia a Martinengo: segno dopo tre minuti dal mio ingresso in campo. La volta dopo mi aspetto di giocare titolare. Invece dentro ancora all’80’, all’85’ faccio gol. A 16 anni chiudo la stagione con trenta presenze, ma non mi bastano. Voglio andare via e lo dico pure perché io sono sempre stato così, fin da giovane. Se c’è una cosa che non mi piace, non riesco a stare zitto. Non sono un paraculo. Preferisco il faccia a faccia e credo sia un pregio, non un difetto».
Da Verdello a Castel Rozzone. «Con la prima squadra del Verdello ho fatto due stagioni, poi ho deciso di andare via. Loro volevano darmi in prestito, io non ci sentivo. Sono partito per il militare e quando sono tornato ho scelto io: Castel Rozzone. E non è stato per una questione di soldi, ma per via del discorso che mi ha fatto il diesse: “Qui c’è tutto il pane, il salame e la polenta che vuoi. E la domenica sera vi portiamo a cena così ci vediamo tutt’insieme i risultati che trasmette Antenna 3”. Poche parole in bergamasco, ma che raccontavano lo spirito di una società che più che ai risultati pensava al gruppo. Eravamo in Prima, nei cinque anni che sono rimasto lì ci siamo sempre salvati. Giocavo centravanti, quaranta gol nelle prime due stagioni, scendevo da una buona Promozione, facevo la differenza. Il gruppo era fantastico. E avevo tempo per il mio lavoro, a 22 anni mi ero già messo in proprio. Dei compagni del Castel Rozzone mi piace citare Cortesi e Dell’Orto, due persone davvero in gamba. Dell’Orto è il famoso giornalista di Libero, una persona squisita».
Da Castel Rozzone a Pontirolo, poi Paladina, quindi il Curno, prima da allenatore del vivaio, poi da centravanti della prima squadra: è la storia di uno zingaro del pallone. «Sì, in quegli anni ho cambiato formazione quasi ogni anno conoscendo tantissime persone. Con alcune, ad esempio Capitanio, siamo ancora legatissimi. Con Capitanio abbiamo giocato insieme due stagioni nella Pontirolese. In campo era un regista fenomenale, un centrocampista che avrebbe fatto la differenza persino in Serie D, fuori dal terreno di gioco una bravissima persona. Io sono andato via da Pontirolo per motivi di lavoro. La strada da fare era tantissima e quindi ho scelto di avvicinarmi a casa. Sono finito nel Paladina, in panchina c’era Gagliardini, un tecnico bravissimo. Mi faceva giocare trequartista e io facevo fatica, un po’ perché correre non mi è mai piaciuto, un po’ perché soffrivo di una pubalgia cronica che mi limitava i movimenti».
Stagione 1999-2000. «Mi sono sposato e sono andato ad abitare a Curno. Avevo voglia di prendermi un anno sabbatico, di smettere per un po’ anche per guarire dai miei acciacchi fisici. I dirigenti del Curno, che mi conoscevano come calciatore, mi hanno subito proposto di allenare i loro ragazzini. L’esperienza mi è piaciuta tantissimo ed è il mio futuro. Nella prossima stagione sarò sulla panchina degli esordienti del Loreto. Ho tanta voglia di iniziare perché ci vogliono qualità che non s’imparano al corso allenatori. Ci vogliono carisma e passione, bisogna imparare a gestire un gruppo, serve tanto coraggio che significa far giocare quello meno bravo, ma che s’impegna tantissimo durante la settimana, lasciando in panchina il fenomeno che però non ci mette neppure il minimo indispensabile».
I tuoi ultimi anni sono stati fantastici: voi del Bergamo San Francesco avete scritto alcune delle pagine più belle dello sport dilettantistico bergamasco, quest’anno a Monterosso il gruppo era fantastico. Chi metti nel tuo personale Top 11? «Dovrei mettere tutti i ragazzi con cui ho giocato nel Bergamo San Francesco e nel Monterosso, squadre dove ho trovato persone simpatiche e divertenti, di cuore. Gli anni del Bergamo San Francesco con Emilio Carlessi come presidente e con Gualtiero Frigerio a centrocampo sono stati indimenticabili. Vincevamo, ma soprattutto ridevamo tantissimo. Stare insieme era fantastico».
Tu, Frigerio, Capitanio, ma anche Astolfi che rinuncia ad allenare in Serie D o Pellegris che ha detto tante volte no alla Lega Pro per giocare in Eccellenza. Restare dilettanti pur avendo mezzi straordinari: che scelta è? «Penso che dipenda da come si vive il pallone. Io l’ho sempre sentito come un hobby, un divertimento. Ogni lavoro impone rigore e serietà, sia il mio, al mercato, che il mestiere del calciatore. Nel mondo dei dilettanti invece c’è spazio per l’allegria e per la fantasia proprio perché è una passione e credo che la Prima, la Seconda e la Terza siano meglio della Serie A».