Bene, questa mattina sono diventato ufficialmente un padre vecchio, per di più rompicoglioni. Ho pronunciato al mio secondogenito ossigenato, il bellissimo Zeno, la famosa frase che ogni genitore di una certa età ha detto almeno una volta nella vita di fronte ai figli che crescono e alle madri che invecchiano, ossia la famigerata “questa casa non è un albergo”.
In barba ai pronostici della vigilia, quelli fatti ieri sera che lo davano in Brianza, immerso in un bagno di gong con l’adorata mamma, Zeno, dodici anni a ottobre, si è alzato di buon’ora. Senza avvertirmi minimamente dei suoi piani, ha iniziato a fare telefonate su telefonate. Prima a sua nonna, la sua complice, Valeria, che lui ricordava stesse partendo per Bologna, quindi a sua zia Teresa, che sta a Cattolica, come i Geme e Nico, tre soci che ha in Romagna, e che in questo momento lo stanno aspettando per scappellarsi tutti insieme sulle rive del mare Adriatico.
Quando mi sono alzato, qualcosa che per me è da sempre abbastanza un dramma perché sono di quelli che odiano le mattine, l’ho visto passare una decina di volte su e giù dalla sala. Stava preparando il suo zaino, facendomi domande a cui non sapevo rispondere. “Matti-papà, dov’è il mio marsupio della Fila?”, “Boh, Ze”, “Matti-papà, hai visto per caso il mio filo dell’iphone?”, “Boh, Ze”, “Matti-papà, le mie ciabatte dell’Adidas?”, “Boh, Ze”, “Matti-papà, posso portare via anche il dentifricio?”. Al che gli ho fatto due domande anch’io, una importante, l’altra, invece, una semplice curiosità sul nostro dialogo serrato. “Ze, ma che minchia stai facendo? E poi perché da questa mattina mi chiami Matti-papà? Preferisco, se proprio, Padre Santissimo che viene dal cielo”.
Zeno è un tipetto mucho convinto. Si è messo a camminare a sei mesi, a undici già parlava, in prima elementare faceva a mente 6985 per 8950 diviso 347 lasciandoci ogni volta a bocca aperta, per i dieci anni ha voluto come regalo i capelli azzurri da un parrucchiere molto in voga qui a Bergamo. Insomma è un elemento parecchio sveglio, un adulto in miniatura da quando è nato, ultimamente si professa marxista e si veste un po’ punk. “Padre Santissimo che viene dal cielo, ho sentito il vento dell’estate. Quindi ho pensato di chiedere alla nonna uno strappo fino a Bologna. Poi, se ha voglia, mi porta a Cattolica dalla zia Terri e ci facciamo un pomeriggio insieme. Altrimenti prendo un treno. Magari la prima sera sto a dormire dai Geme o da Nico. Vedo quando sono giù. Comunque torno il 28. La mamma lo sa già, è d’accordo, che mercoledì mi raggiunge con Vinicio e Miranda”.
Sti cazzi. Muto. Incerto sulla giusta risposta educativa nei confronti di un figlio che ha preso il meglio di sua mamma, la capacità organizzativa da tour operator, e il peggio di me, il bisogno di partire sempre e comunque. Avrei voluto fargli un discorso sensato, ma era troppo presto, il mio cervello, già abbastanza menomato e che si sveglia intorno alle sei di sera per l’aperitivo, non dava alcun segno. “Davvero, Ze?”, “Sì, Padre Santissimo che viene dal cielo”, “Minchia, Ze”, “Sì, Padre Santissimo che viene dal cielo”, “Figa cazzo, Ze”, “Sì, Padre Santissimo che viene dal cielo”, “Ze, hai bisogno di qualche soldo?”, “Sì, Padre Santissimo che viene dal cielo”.
Ed è accaduto lì, nel dargli la banconota da cinquanta euro che avevo nel portafoglio, che mi è uscita la frase: “Offri una birretta alla nonna quando vi fermate in autogrill e chiamami quando arrivate”. Poi in modo fiero, recitando la parte del genitore severo: “E ricordati che questa casa non è un albergo”, “Sì, Padre Santissimo che viene dal cielo”, ovviamente con quel sorriso che avevo pure io alla sua età, quando mi dicevo tra me e me “a là, bigol, parla, parla, tanto io faccio il cazzo che mi pare”.
Matteo Bonfanti
Nella foto Zeno e Valeria in partenza verso il mare