Non sono in un bel periodo, sono incazzato nero e ho addosso la rabbia perché per la prima volta in vita mia non riesco a perdonare una persona che mi ha fatto tanto male. Allora parlo sottovoce, scrivo di rado e senza la speranza che è il motivo delle mie parole. Da sempre racconto il cielo, l’Adda, la luna, le stelle, mia mamma, che è la mitica professoressa Campagni, Caino che sta facendo le frittelle in chissà quale pianeta dell’universo conosciuto, poi i pensieri grandi e forti e controvento di mio babbo, che è il maestro Marco della scuola di Acquate, quindi i miei ragazzi, Vini e Ze, Ze e Vini, giovani guerrieri, unici, spaventati, dolcissimi e comici mentre stanno iniziando ad essere alle prese col mestiere di vivere, tutti i sogni che stanno nella mia stanza. Ho la fortuna di avere mille raggi, persone meravigliose, ieri a festeggiare i miei quarantacinque tra botti in cortile e sorrisi nel nostro appartamento in centro, come avrei voluto, solo che è un momento che mi capita di concentrarmi su tuoni, fulmini e saette, annegando nell’orgoglio, nelle questioni di principio e nei problemi di coscienza che m’interessano tanto, uguale a Montalban nella poesia dedicata al Che.
Dovrei perdonarmi di avere accettato il male, avendo fatto finta di non vederlo, e cambiarla, soprattutto per viverla meglio, e allora mi metto e ci provo ora in una redazione solitaria e silenziosa, lungo questi attimi che mi separano dal secondo tempo di Inter-Liverpool, quarantacinque minuti che vivrò abbracciato stretto stretto sul divano col mio Zeno, il mio secondogenito, pronti a tifare nerazzurro, visto che siamo due milanisti e che ci importa il campionato, nell’idea che se Lautaro e soci vincono la Champions, a noi, magari, ci lasciano sia la Coppa Italia che lo Scudetto.
Ieri era il mio compleanno, i miei colleghi sono stati unici, poi più su, come in “Salirò”, ed ecco la mia famiglia, il mio riparo e il migliaio che mi conosce, che mi fa stare in pari con le mie insicurezze, un sacco di gente pronta a battermi le mani, il Gigi, Robi, Gre, Ermallo, Pino, Maria, Diego, il Mala e Stephan così accanto. Ma pure chi mi legge e che mi fa sentire vivo. E gli amici d’infanzia.
Ora, che sono nella piena maturità, solo questo, una citazione di Gianfranco, uomo straordinario di cui sto scrivendo la biografia, “Matti, cura la tua nicchia”. Che sono anche chi mi è stato vicino da ragazzetto, che mi ama pure se è lontano lontano, ricordandomi tra i miei brufoli e le mie immense sfighe. Di questi uno che è unico, Nicola, un cantautore assai bravissimissimo che adesso sta a Roma e che ha passato il Liceo Scientifico a Lecco nel banco a due con me, sezione B del Grassi. Ieri si è alzato e mi ha fatto “Tanti auguri a te” in modo meraviglioso, col suo piano delizioso, da magnare stile Sacher, nel suo stile visionario e poetico, da Premio Tenco all’improvviso, che tra poco avrà in mano perché ha talento, genio e cuore, le sole cose che per me sono importanti.
Alzarsi tra le sue note è il bello della vita, l’arcobaleno, l’Adda, quello che mi piace e che ho già raccontato. Peccato non avere il video della canzone, con i suoi occhi verdi e con le sue dite immacolate e piene di grazia da guardare e riguardare, per dire una volta di più che in questa Italia da cambiare c’è da salvare l’amore che è sempre e per sempre, dai quattordici anni ai cento e passa che io e Nic vivremo ogni mio compleanno tra i suoi fantastici accordi.
Matteo Bonfanti