di Simone Fornoni
Alle 11.40 il terremoto ha spaventato forse solo i fifoni, decuplicatosi in quasi due anni di (stato di) emergenza (covid), cogli spioni a fioccare quanto i professoroni improvvisati. Gli stessi che pensavano di sconfiggere la pandemia andando al ristorante, meglio se cinese, quando il vero virus era il razzismo, o facendo convergere nel capoluogo gente da Albino a Osio Sotto con una sola timbrata di biglietto nel secondo weekend pieno dall’inizio dei contagi. Adesso pure sismologi. Poi, in attesa della febbre del sabato sera, è stata la Roma che non ti aspetti a spalancare il cratere sotto i piedi a dirigenti, staff, calciatori e calciofili della Bergamo che da un quinquennio abbondante s’intigna a nascondere la polvere sotto il comodo tappeto del pallone. La voragine dei sentimenti, perché una volta saliti sul podio tutto sembrava in discesa, e il buco nero degli isterismi incrociati, nell’affannoso e annaspante tentativo di afferrare la ciambella di salvataggio delle scusanti, a mo’ di accuse a ditino puntato. Quando le ambizioni non si accompagnano a una cultura sportiva da big, tetragona a ogni scossone emotivo altrimenti provinciale è e resta nel senso deteriore del concetto, alla fine raccogliere quanto si è seminato sul campo è agevole quanto dissodare la battigia durante il mare grosso. Mission impossible. Anzi, da pazzi furiosi, anche a dispetto del settanta per cento di possesso eccetera, roba che a conti fatti non decide le partite.
Dopo la sestina di fila l’Atalanta si rompe i piedi camminando sopra la cozza chiusissima del 3-5-2 di José Mourinho e a Bergamo, insieme alla perdita traumatica della sensazione di poter essere l’anti Inter tentando la rincorsa oltre il giro di boa. Gli alibi della tecnologia dall’intervento incerto e i capri espiatori che il bacino d’utenza ama tirare a sorte per potersela prendere con qualcuno. Per Gian Piero Gasperini è tutta colpa o quasi del 2-2 di Duvan Zapata annullato, perché non sarebbe stata attiva e quindi punibile la posizione di José Palomino che non l’ha toccata nemmeno per ipotesi, lasciando l’incombenza al volto amico di Bryan Cristante, l’autogoleador del sabato pomeriggio, e poco importa se Duvan Zapata era già in volo a braccio alto e larghino, gesto comunque assolto dal prode Luigi Nasca, il nefasto suggeritore occulto del direttore di gara Massimiliano Irrati che di suo l’agognato pari in remuntada l’aveva pure assegnato.
Titoli di coda del thrilling cominciato in realtà dopo 57 secondi con la sbracciata sospetta del doppiettista Tammy Abraham, erede presuntivo e soprattutto estivo del Toro di Cali, con Berat Djimsiti. Il fatto è che devi solo recitare il mes culpa se ne becchi tre in contropiede o giù di lì, più la zampata al volo che l’ammazza da Chris Smalling, un monumento che non sta più in piedi salvo allungare l’arto inferiore per tramutare in oro colato la palla inattiva di Jordan Veretout senza essere guardato a vista da anima viva. Che c’entra Juan Musso? Perché dargli la croce addosso? S’è mai visto un portiere uscire su un cross da fermo e contemporaneamente su uno che ci si butta, pronti a sbucargli davanti perché gli altri se lo sono persi? Una sconfitta, per quanto secca e immeritata nelle proporzioni, ma figlia di una sfida zavorrata fin dallo start come nei precedenti da indizi gravi e concordanti che fanno una prova (Milan, Fiorentina, Villarreal), va presa per quel che può insegnare. Tipo che Nicolò Zaniolo, assist e raddoppio d’autore, se sta bene è un fenomeno da urlo, un mancino spallatissimo che comincia una manovra di tacco e la conclude chiudendo lungo il primo palo senza farsi strappare l’attrezzo manco dal Padreterno.
Inutile, e anche stucchevole, che i tifosi di fede nerazzurra debbano o possano scrivere la favoletta del portiere a cui addossare la responsabilità della sconfitta. Esercizio retorico vano e controproducente per la salute anche rodersi il fegato come fa l’uomo in panchina nella pretesa infondata che qualcuno gli spieghi perché il regolamento non sia mai applicato in misura equanime: il calcio è fatto di uomini che oscillano lungo lo stendipanni dell’errore individuale, qualcosa che non si può afferrare e spiegare sempre e comunque. Del resto si sbaglia anche a insistere su Josip Ilicic e Mario Pasalic larghi quando ne azzeccano poche, o forse a virare al 4-2-3-1 per inserire il dimezzatore casuale dello score Luis Muriel, aiutato dall’ancata spiazzante della plusvalenza che fu. A che serve, in cauda venenum, richiamare alla memoria i casi da moviola andati di traverso mesi addietro contro la Fiorentina, leggi mani di Joakim Maehle per un rigoricchio e punto annullato al difensore albanese per il solito fuorigioco, passivo o attivo non si sa, del Toro di Cali? O ancora, il mani al settantunesimo di De Silvestri negli occhiali inforcati sempre a Bergamo col Bologna titubante di allora? Se davanti al pubblico amico si fanno 12 punti sui 37 totali a meno 1 da metà campionato, certe attenuanti non reggono all’assalto dei fatti conclamati. I quali dicono che la Dea talvolta scende dall’Olimpo e butta le partite dalla Rupe Tarpea. Facendosi molto male, per inciso. Invece a essere fatto è il salto di qualità. In tutti i sensi. Scollinando oltre recriminazioni senza costrutto.