di Simone Fornoni
Niente come il gioco del pallone, metafora della vita, tutti insieme per un obiettivo che varca la riga di porta e gonfia la rete oltre al nostro orgoglio e alle nostre speranze, rappresenta un raggio di luce in un cielo buio e minaccioso. Anche se a scorgere il sereno sono in pochi. Magari solo quelli che hanno potuto e possono assistervi. Italia-Olanda è finita 1-1 e gli Azzurri sono stati scavalcati in testa al girone 1 della Lega A di Nations League dalla Polonia, 3-0 alla Bosnia e 8 punti contro i 7 della Nazionale del ct Mancini e 6 degli Oranje. Il botta e risposta Lorenzo Pellegrini-Donny van der Beek, uno che forse con lo squalificato Marten de Roon non avrebbe neppure fatto il titolare, tra 16′ e 25′, non deve aver entusiasmato più di tanto i mille scarsi sugli spalti del Gewiss Stadium, nella città eletta a simbolo della resistenza al Coronavirus.
I 243 con la fascia tricolore, i sindaci di quella che passa per la provincia più colpita anche se il triste primato sarebbe di Piacenza, e il personale medico-infermieristico invitati a presenziare hanno reso udibile anche in tv il loro sostegno. Ci mancherebbe altro, il calcio è pur sempre un raggio di luce nel buio, uno squarcio di evasione in mezzo alla narrazione quotidiana di segno catastrofista e alle minacce continue di misure draconiane e lockdown rivolte dalla classe dirigente ai cittadini, additati cretinamente a responsabili di una pandemia attualmente al 96 per cento di asintomatici (sani).
No, a dispetto della scelta della nostra città e della corona di fiori al cimitero per commemorare i morti di Covid-19, non è stato il Club Italia, in cui mercoledì sera a parte l’assistman delle illusioni Nicolò Barella e il firmatario del vantaggio giocava troppa gente svogliata per non dire di peggio, a onorare Bergamo e le sue 6.238 vittime accertate della asserita peste dello start della decade. Lo è stato l’unico giocatore a rappresentare l’Atalanta a pelo d’erba. Uno che non è nemmeno italiano, ma ha scelto di essere bergamasco. Si chiama Hans Hateboer, è uno stantuffone del ’94 senza una particolare predilezione per la tecnica pura (eufemismo) che dal 2017, proveniente dal Groningen, ha messo radici da queste parti. E alla fine s’è abbracciato con l’ex Leo Spinazzola, un altro a cui il terreno di gioco era familiarissimo. Eccolo, lo squarcio di sereno che fende come una spada l’ingiustizia, le ansie e le preoccupazioni per le tenebre, il conto giornaliero di chi sta benissimo ma per ordine superiore va sputtanato come appestato e untore e infine il countdown verso una nuova carcerazione preventiva di chi non ha colpe, con l’unica consolazione che i protocolli ormai riveduti e corretti stavolta non bruceranno i polmoni a nessuno fino a farlo secco.
Ad altissima fedeltà, il tulipano volante, uno dei protagonisti della recente epopea aurea agli ordini di Gian Piero Gasperini. Anche se nello scorso Ferragosto le sue presunte dichiarazioni a un on line del suo Paese sembravano prefigurarne la cessione, figlia della convinzione di essere a fine ciclo come la Dea e del diritto a qualcosa di nuovo, al sapore di big. Niente di più falso: questo è già a due gol, e pure al volo, di piattone, sotto la traversa, in tre soli turni di campionato. Ha raddrizzato la fetta. E con quella bella casacca arancione, nella serata dedicata alla sua terra adottiva, come lo è per chiunque abbia il nerazzurro sul contratto, nelle gambe e nel cuore, ha onorato la sua Nazionale, la nostra, l’Atalanta, Bergamo e i bergamaschi.
Un popolo fiero per cui l’eleganza e la forma magari passano in sottordine rispetto al duro lavoro per emergere. Lui, Hans, ne mastica eccome. Basti guardare alle sportellate e alle legnate con Giorgione Chiellini, lo juventino, l’incarnazione del potere del pallone poco apprezzato qui che siamo alla periferia dell’impero: incrociato e menato abbastanza alla centocinquesima presenza azzurra, fino a rotolare per terra due volte, dopo 14 e quindi 76 minuti, beccato su costato, piede e polpaccio. Pazienza se i due cross in croce in tutta la partita, di sinistro a rientrare e di destro, uno per tempo, non abbiano inciso nella carne viva la difesa a quattro del Mancio. Hateboer, 33 sulla schiena nel club e 2 sotto Frank de Boer che ha voluto la difesa a cinque, ha corso su e giù dall’alfa all’omega. Da portatore d’acqua e malta, da umile muratore in una squadra che non manca di architetti (Depay, Frenkie de Long, Wijnaldum). E soprattutto da eroe in prima fila capace di destare in chi lo osserva, anzi lo ammira, la speranza o forse l’illusione di una nuova normalità. Perché lotta per la causa e produce risultati, da buon bergamasco. Aveva fatto lo stesso, non a caso, il 19 febbraio, con quella doppietta a San Siro di spaccata e di corsa nel poker sporco al Valencia nell’ottavo di andata in Champions League. Quattro giorni più tardi, ecco l’inizio del funesto conteggio di malati e morti dalle nostre parti. Grazie, Hans, obbligàti davvero.