di Simone Fornoni
Essere e fare i big in campionato, in sella e anzi sul trono dell’outsider sprovincializzata, non significa esserlo in Europa. Dove faticano anche il Real Madrid, il Tottenham finalista uscente e a tratti, nel primo turno in casa dell’Atletico, pure la Juventus. Figurarsi, per l’Atalanta, se il trio magico davanti proprio esente da macchie non è, i giocatori di livello medio, le cui ingenuità nei palcoscenici infrasettimanali targati Uefa si pagano cogli interessi. C’è tutta la differenza, pardon il gap, tra il calcio italiano e quelle delle competizioni continentali, nella pur immeritata e per certi versi inspiegabile sconfitta dei nerazzurri anche nella seconda giornata del Group Stage dominato dal Manchester City, martedì a San Siro con lo Shakhtar.
Le prove che rafforzano la tesi, senza che debba suonare sminuente per la banda di Gian Piero Gasperini, sono emerse impietosamente a pelo d’erba. Josip Ilicic tesse trame che levati, ma poi conquistato il rigore sente la strizza del momento topico facendosi ipnotizzare da Pyatov. Papu Gomez fa il boia e l’impiccato, ma alla fine manca il colpo del ko girandosi debolmente sul sinistro. Duvan Zapata infila l’ascensore del vantaggio e nel secondo tempo ne sbaglia un paio al pianterreno. Dulcis in fundo, Marten de Roon si fa scappare Alan Patrick sull’assist del pari e patta di Moraes, mentre la coppia di esterni Robin Gosens-Timothy Castagne ci aggiunge scivolone e diagonale ciccata sull’asse della rimonta da 3 punti Dodô-Solomon.
La seconda partita del girone C di Champions ha ineffabilmente dimostrato che la dimensione della Dea della Bergamo pallonara non è adatta alla regina delle coppe europee. Perché se entro i confini nazionali basta aumentare il ritmo e metterci l’agonismo, anche i Tre Tenori davanti contro avversari di rango internazionale fanno fatica. Per non parlare di chi non ha i piedi così buoni. Disamina semplicissima: nel Belpaese si corre due o tre volte meno e i Gasp-boys danno tre giri a chiunque, al netto forse della triade Inter-Juve-Napoli, ma nel Vecchio Continente, dove ritmo e grinta belluina vanno dati per scontati, la sommatoria della tecnica individuale, della consistenza e dell’esperienza ad alti livelli fanno la differenza eccome.
Nelle piccole cose, nei dettagli, come nelle ripartenze secche e senza fronzoli, e in quelle da scrivere con la maiuscola, non solo a referto. Di là, una combinazione di ucraini e brasiliani, anche se il match winner è israeliano. Ovvero animus pugnandi con la bandiera patria fra i denti in buon numero (6 su 11 titolari) e il resto affidato all’inventiva, al palleggio e ai fraseggi d’impronta sudamericana: contro un undici che si affida quasi solo a corsa più singoli ha fatalmente avuto la meglio, anche a forza d’imporsi sulle ali di una praticità essenziale. Quanti passaggi in avanti, ultimi e penultimi compresi, hanno sbagliato gli uomini di Castro? Quelli decisivi no di certo. La ninfa dell’attrezzo di cuoio, multinazionale all’insegna dell’usato sicuro, con quattro soli italiani, Gollini, Sportiello, il terzo portiere Rossi e Masiello, va sotto anche giocando meglio.
Morale della favola: l’Atalanta ha tutto per essere stabilmente la terza o la quarta forza italiana, laddove le competizioni interne soffrono da tempo l’essere figlie di un mercato di sbocco ormai abbastanza marginale, tolto il paio di squadroni ricordato prima, ma in Champions difficilmente potrà mai essere molto di più della Cenerentola del caso. È anche un problema di budget, di liquidi da investire. I cosiddetti Minatori del Donbass stradominano in Ucraina perché lo stipendio dei suoi attaccanti vale il budget di una qualsiasi concorrente, anche della Dinamo Kiev che in tempi di Perestrojka era il Calcio con la C maiuscola.
Nel raggruppamento Champions il gap di spesa per l’allestimento della rosa tra la prima e il fanalino di coda supera di parecchio i 900 milioni. Ma Antonio Percassi non ne ha nemmeno un centinaio da investire per provare anche solo lontanamente a mettersi alla pari sul piano tecnico. Morale della favola-bis: accontentiamoci di quello che viene, se viene. Pensando già da adesso a puntare al terzo posto nel girone, che significa retrocessione in Europa League a fine inverno. Mettiamoci pure la firmetta, sarebbe tanto grasso che cola.