Nell’ultimo anno, tra i vari e grandi problemi generati dalla pandemia, uno in particolare ha allentato il processo di sviluppo delle pari opportunità. Di questo tema ne abbiamo voluto parlare con Valentina Tugnoli, Presidente della Commissioni Pari Opportunità del Comune di Treviglio, consulente fiscale e mamma da pochi mesi della piccola Ottavia, che ci ha gentilmente concesso questa intervista. Ne è uscita un’analisi molto approfondita di tutte le dinamiche associate a questo tema, sempre troppo poco trattato rispetto all’importanza dello stesso. Peraltro la cronaca recentissima e le notizie in arrivo dall’Afghanistan hanno riportato in maniera drammatica il focus sul più ampio tema della libertà delle donne.
Valentina, innanzitutto, quale un primo bilancio dell’attività della Commissione che si è insediata, è bene ricordarlo, nel gennaio 2017, quindi in un’epoca, che seppur poco distante in termini di anni, era completamente diversa dall’attuale?
“Mi piacciono molto i bilanci perché permettono di elaborare riflessioni e fissare nuovi obiettivi. Nell’ultima seduta della Commissione di luglio ci siamo riuniti per affrontare il tema dei “progetti aperti”. Ci restano non espressi, proprio a causa della pandemia, una progettualità importante legata al mondo dello sport che stava per partire a marzo 2020, l’intitolazione di una piazza ad una donna e il bellissimo progetto “Inspiring Girls” per il quale l’Istituto Grossi si era reso disponibile. Per stare in tema di Olimpiadi, passeremo il testimone alla Commissione Pari Opportunità che insedierà dopo di noi, sperando possa portare a termini i progetti non terminati, ma su cui abbiamo investito tante energie”.
Con quali logiche vi state muovendo? Quali i successi ottenuti? Quali le cose ancora non risolte?
“Ci siamo mossi cercando di attuare il programma di mandato con cui ci siamo insediati nel 2017. Il successo più grande è senza dubbio il lavoro svolto per il contrasto al bullismo con la rete educativa che si è venuta a creare, fatta di operatori che credono in ciò che fanno e che hanno saputo approcciare il tema con le studentesse e gli studenti, ma anche con gli adulti. Il punto forte del nostro progetto era infatti quello: di bullismo non si deve parlare solo con le vittime e con i bulli, ma anche con chi ha il compito di educare. La scuola, certamente, ma prima la famiglia.
Le cose non risolte sono tante, purtroppo. Ma quelle che mi fanno male sono senza dubbio gli episodi di violenza, cresciuti anche a causa della pandemia, e pensare che ancora oggi certe bambine e certe ragazze non possano scegliere il percorso che desiderano per ostacoli culturali o di ogni sorta. Io credo molto nell’”empowerment femminile” e credo che l’esempio serva: dobbiamo far conoscere le donne impegnate con passione e successo nei più diversi ruoli professionali, che con la loro testimonianza possano ispirare le ragazze a non porsi limiti nella definizione del proprio percorso e ampliare gli orizzonti di ragazze e ragazzi nell’immaginare il proprio futuro.
Da ultimo, un tema trascurato e che invece deve essere attenzionato sempre di più nel futuro: quello dei padri separati, affinché non rientrino più nel novero delle “nuove povertà””.
In particolare il mondo del lavoro sembra non avere ancora capito quale deve essere il ruolo della donna. Troppe volte la logica del profitto porta i datori di lavoro a considerare “un peso” la parte femminile che, vorrei ricordarlo, in molte realtà aziendali, rappresenta la maggioranza dei dipendenti.
“Qualcosa sta cambiando e in molte realtà aziendali (finalmente) si sta considerando la maternità “un master” e l’essere donna un quid da valorizzare. Rimane, tuttavia, il tema del “gender gap”, il divario salariale tra donne e uomini. Se prima della pandemia le stime parlavano di poco meno di un secolo di attesa per colmare il gender gap a livello globale, due anni e una pandemia dopo questo traguardo è sempre più lontano e la fatidica data si sposta a 135,6 anni. Dati scoraggianti che si spiegano guardando prima di tutto a questa pandemia, che nell’ultimo anno e mezzo ha messo a dura prova non solo settori strategici come servizi, turismo e assistenza, in cui le donne sono maggiormente impiegate con contratti precari e dove in media hanno perso il lavoro il 5% di loro contro il 3,9% della popolazione maschile, ma anche la stessa tenuta del nucleo familiare, la cui cura è ricaduta sulle donne. Non fa eccezione l’Italia, che, anzi, in termini di “empowerment” economico si colloca al 114-esimo posto su 156, mentre per quanto riguarda il “pay gap” è ferma al 127esimo posto”.
Neppure il mondo dello sport, che oggi appare tutto dorato nel solco delle Olimpiadi che sono appena terminate, si sottrae a queste logiche. Basti ricordare il caso della cestista italiana a cui non fu rinnovato il contratto una volta essersi scoperta in attesa di un bambino e la stessa cosa è successa ad un’atleta statunitense, ridimensionata nel contratto di sponsorizzazione sempre per lo stesso motivo?
“I Giochi si vantano di celebrare la donna e la “gender equality”, però le restrizioni per la pandemia li hanno ingabbiati ed è sembrato chiaro: o privilegi la maternità o lo sport. Bimbi a casa, aveva ordinato il comitato organizzatore, allarmato dal trovarsi circondato da ciucci e biberon.
Allora la maratoneta Aliphine Tuliamuk, nata in Kenya, ma naturalizzata americana dal 2016, ha scritto una mail al presidente Bach e agli organizzatori di Tokyo 2020: “Ho 32 anni e ho appena realizzato il desiderio di diventare mamma e allatto, ma ho anche vinto i trials, e sono qualificata per Tokyo. Voi mi dite che non posso portare con me mia figlia Zoe di 6 mesi e mi costringete ad una scelta che non posso fare”.
Anche la canadese Kimberly Gaucher, nazionale di basket, ha protestato e ha lanciato un appello sui social: “Siamo mamme che lavorano, ho 37 anni e allatto, devo venire a Tokyo, è la mia terza Olimpiade, ma non posso lasciare sola per 28 giorni mia figlia. Sia chiaro che così mi costringete ad una scelta crudele. Siamo nel 2021, lo sport femminile si sta evolvendo, rendiamo normale l’idea che una mamma possa anche avere una professione”. Ad alzare la voce ci si è messa anche la calciatrice americana, Alex Morgan, 32 anni, campionessa del mondo, che già con la sua nazionale si è molto battuta per avere parità di salario.
Ovviamente la battaglia più conosciuta è quella portata avanti da Allyson Felix. La donna con più podi nell’atletica leggera è tornata ad allenarsi dopo tre mesi dalla nascita della sua bambina e ha lasciato il suo sponsor Nike perché le aveva rifiutato garanzie contrattuali durante la maternità. Qualche mese dopo ha festeggiato su Instagram: Nike non avrebbe più penalizzato le atlete che scelgono di diventare madri.
Parlando di Olimpiadi e pari opportunità, mi sia concesso di augurare il meglio anche ai nostri atleti paraolimpici. Siamo stati attivi come Amministrazione anche nelle progettualità sportive che hanno garantito l’inclusione. Ne vado molto fiera”.
Oggi la figura della mamma lavoratrice assume un ruolo ancora più impegnativo: dad, smart working, part time. Tutti questi inglesismi – che personalmente non mi piacciono – celano una realtà ben più complessa. Ovvero la necessità di conciliare famiglia e lavoro, in un gioco di equilibri che spesso va a minare non solo la serenità della famiglia, ma la salute stessa delle mamme lavoratrici. In tal senso va letto anche il calo demografico che, giocoforza, incide pesantemente nelle scelte delle famiglie di generare nuove vite.
“Non lo dica a me, sembra che parlare in italiano sia diventato da demonizzare!
Tornando a noi, è notizia di qualche mese fa che in Italia siamo meno di 60 milioni, dato mai così basso dal 2013.
La pandemia non aiuta, ovviamente, ma anche il calo demografico, a cui assistiamo da svariati anni, incide.
Certo, per i neo genitori gli aiuti sono quasi inesistenti. Ma non sono solo gli aiuti economici che mancano, bensì un cambiamento culturale che deve aiutare le giovani coppie con figli. La maternità non deve essere considerata uno stop nei percorsi lavorativi, ma, anzi, una risorsa. Ad una società che sembra privilegiare gli individui soli e consumatori, ripartiamo dalla famiglia, primo nucleo fondante delle comunità.
Le esigenze di distanziamento sociale connesse al contenimento del Covid hanno avuto un forte impatto sull’organizzazione del lavoro, tanto da far prefigurare una nuova normalità con largo ricorso al lavoro agile e al lavoro remoto anche nel futuro, a prescindere dall’emergenza sanitaria. Come molte forme di lavoro flessibile, il lavoro a distanza può facilitare la conciliazione tra tempi di lavoro e di vita e accrescere il benessere dei soggetti coinvolti. Tuttavia, in mancanza di una equilibrata suddivisione del carico di lavoro domestico e di cura, le donne rischiano di sopportare un peso eccessivo. Questo potrebbe spiegare perché, come emerge da un’indagine condotta dall’Inps, le donne sembrano apprezzare meno degli uomini i vantaggi derivanti dallo smart working.
Il lavoro a distanza è normalmente indicato come strumento di bilanciamento vita-lavoro e, in ottica di superamento dei divari di genere, come elemento in grado di favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e le loro prospettive di carriera. Grazie a una riduzione degli spostamenti consente di rimuovere una fonte di stress, liberando tempo indirettamente legato al lavoro che può pertanto essere dedicato ad altre attività. Inoltre, almeno in via ipotetica, amplifica i margini di libertà nella gestione delle attività lavorative e non lavorative, facilitandone l’organizzazione in un modo più consono alle esigenze individuali e familiari. Tuttavia, se la suddivisione del lavoro domestico e di cura non è equilibrata, le donne rischiano di vedersi ancora svantaggiate.
Durante la pandemia ho aderito alla campagna #DateciVoce.
Mi sono battuta contro ogni forma di segregazione femminile. Durante la Fase 2 della pandemia, gli uomini sono tornati al lavoro e le donne sono restate a casa ad occuparsi del lavoro di cura e domestico. Ho chiesto l’estensione dei congedi parentali per padri e madri e di pagarli fino all’ 80 per cento, di prolungare nel tempo ed aumentare la cifra dei bonus babysitter previsti ed organizzare la riapertura delle scuole primarie e della media inferiore (nel rispetto delle norme di distanziamento sociale e dei protocolli di sicurezza), degli asili e delle materne, per consentire anche alle donne di tornare al lavoro. E soprattutto abbiamo chiesto a gran voce un’equilibrata presenza di donne e competenze femminili nelle numerose “task force”: avrebbe aiutato ad includere nelle scelte politiche un necessario punto di vista di genere”.
Ritiene che si possa arrivare ad un modello di condivisione delle responsabilità tra madre e padre del bambino che porti pure l’uomo a congedi parentali più solidi e continuativi (come capita già all’estero) che siano in grado di ridare alla donna lo spazio necessario per una piena realizzazione anche lavorativa, troppo spesso limitata dal ruolo di mamma?
“Il congedo di paternità è fondamentale per riequilibrare le disuguaglianze professionali di genere e ha un sacco di vantaggi per il neonato.
La maternità è un momento magico per entrambi i genitori e anche lo Stato si deve impegnare per garantire che sia la mamma che il papà possano stare vicini ai loro piccoli.
In Francia i giorni del congedo dei papà sono stati aumentati a 28, in Italia, nella Legge di Bilancio 2021, il governo ha inserito tra i bonus famiglia l’estensione a 7 giorni del congedo paternità 2021, come richiesto dall’Europa. Entro il 2022 si dovrà arrivare a 10 giorni”.
Un altro tema delicato è quello della violenza sulle donne. Ancora troppi sono i lutti e le violenze che lasciano senza parole. In occasione della festa della donna, nel marzo di quest’anno, proprio da queste colonne raccontammo dell’evento realizzato da Poste Italiane con la “Casa delle Donne”, dove si poneva l’accento su questa situazione divenuta da tempo inaccettabile. Le associazioni fanno molto ma non trovi che manchi ancora un apporto decisivo da parte dello Stato in tema di prevenzione seria e tutela costante? Ritieni corretto che se le donne fossero più emancipate grazie alle pari opportunità, potrebbero affrontare con maggiore decisione anche questa piaga?
“Anche su questo fronte il Covid non ha aiutato. All’inizio delle misure di contenimento era stato registrato un aumento del tasso di violenza di genere in quanto, per via della quarantena, le donne avevano meno occasioni per potersi allontanare dal partner abusante e di conseguenza per chiedere aiuto e fuoriuscire dalla situazione di violenza. Molti abusanti hanno visto questo cambiamento dello status quo imposto durante la pandemia come una minaccia al controllo e al potere esercitato sulle vittime. Ciò ha portato, e sta portando, a un ulteriore incremento della violenza. Tuttavia, non è ancora cominciato un dibattito sull’emergere di nuove violenze e di nuovi omicidi dovuti alle riaperture. La violenza di genere è un fenomeno sistemico e non può essere trattata in modo emergenziale, saltuariamente, al solo emergere di eventi particolarmente efferati. un dibattito futuro in Italia su questo tema deve andare oltre il singolo discorso di cronaca e deve interrogarsi anche sulle conseguenze straordinarie per le donne vittime di violenza di eventi straordinari come l’attuale pandemia. Solo in questo modo, finalmente, sarà davvero possibile comprendere come intervenire dal punto di vista sociale per portare a risultati concreti. Occorre farlo ora, perché a ogni giorno che passa, il computo delle vittime continua ad aumentare”.
Valentina, per chiudere, con quali speranze possiamo pensare di affrontare il futuro nelle pari opportunità?
“Saranno cinque anni cruciali per la parità di genere. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione della Terza Sessione plenaria del G20 Empower del 6 luglio a Roma, ha sottolineato come le scelte di oggi sul tema della parità di genere condizioneranno il futuro e l’abilità del nostro paese di garantire uguaglianza di opportunità. Intanto, approda alla Camera la discussione sulla proposta di legge per promuovere la parità salariale.
Per non limitarsi a un dibattito animato da buone intenzioni, gli organizzatori del Generation Equality Forum di quest’anno hanno sviluppato un nuovo sistema, secondo il quale a tutti i partecipanti è richiesto di sottoporre azioni concrete e misurabili in uno di sei ambiti indicati. Vengono anche elencati alcuni degli impegni che possono essere ritenuti validi da parte della comunità internazionale: per esempio, il miglioramento dell’educazione sessuale nelle scuole per raggiungere 50 milioni di adolescenti in più entro il 2026, la riduzione di metà del digital divide tramite investimenti nell’educazione digitale e per l’accesso delle donne alle tecnologie digitali, o l’incremento dei prodotti finanziari gender-responsive (che siano sensibili alle disuguaglianze di genere) – una proposta già portata avanti in risposta all’ultimo G7, che di donne invece ha parlato poco. La speranza, e l’obiettivo, è che nei prossimi cinque anni le promesse fatte si siano concretizzate. E abbiano cambiato la vita a milioni di donne in tutto il mondo”.
Ringraziamo Valentina per il tempo concesso e le auguriamo di poter proseguire con tanta determinazione una battaglia sociale vitale per il futuro della nostra società e delle future generazioni.
Giuseppe De Carli