A qualunque latitudine il calcio è lo specchio della società e in Italia la tendenza è quella di non pagare più i giovani per quello che fanno. Partiamo dal mondo del lavoro: finiti i massacranti e costosi studi, si parte con i drammatici stage non retribuiti. Architetti, giornalisti, psicologi, avvocati, commercialisti, persino i medici, tutti nella stessa (maledetta) barca: zero euro per fare ore e ore in ufficio, anche cinquanta la settimana, così per anni, sicuramente un paio, il famoso biennio tragicomico degli ultraventenni di oggi. Qualcuno che dà dei soldi ai ragazzi c’è, bar e ristoranti, tre euro e cinquanta, ovviamente in nero, per sessanta minuti a spillare birra o a servire ai tavoli, cinque euro per far da mangiare se si è cuochi appena usciti dal praticantato, ovviamente gratuito, che impone la scuola alberghiera.
E nel pallone? Dalla Serie D alla Seconda categoria è come passare il tempo a faticare dietro al bancone di un pub. Bravi tecnicamente, spesso fisicatissimi, sani, in forma, veri atleti, eppure trattati come gente che non vale nulla. Escono da settori giovanili di grido, incredibilmente impegnativi, quelli che hanno costruito un campione come il granata Andrea Belotti, uno che è l’oggetto del desiderio del Real Madrid. Salgono in prima squadra perché fanno la regola (quattro baby sempre in campo), si allenano, si impegnano come dei matti e prendono rimborsi irrisori, normalmente un decimo dei soldi che guadagnano i vecchi, magari bomber sulla via del tramonto, ma famosi, in grado in estate di galvanizzare la piazza, che nel calcio provinciale sono gli sponsor, quelli che finanziano il giocattolo.
SUL BERGAMO & SPORT OGGI IN EDICOLA L’INCHIESTA DEL DIRETTORE MATTEO BONFANTI SUI RIMBORSI AI RAGAZZI CHE FANNO LA REGOLA