di Matteo Bonfanti
Ascoltavo Caressa. Era qualche sera fa e non è che la cosa fosse facile facile. Perché io avevo lavorato dodici ore filate e lui era in versione filippica. Ce l’aveva un po’ con tutti, era inviperito coi vertici della Federazione ed era di una noia bestiale perché parlava di incarichi politici e, quindi, di persone lontanissime da noi che non stiamo nei salotti buoni, ma neppure in quelli discreti. Non c’era il guizzo, non c’era il colpo di genio. Che ha sempre, invece, quando fa la telecronaca di una partita e pare raccontarti una guerra talmente tanto la rende un casino. Mi fa venire i brividi, mi fa immaginare Dio, la Madonna e ogni santo in campo da un momento all’altro per l’una o per l’altra e pure i loro colleghi dell’Olimpo se c’è la Grecia o le divinità dei mussulmani se gioca l’Algeria. Durante una sfida Caressa ha un ritmo pazzesco, manca solo che tiri fuori un cannone e, in diretta, spari al povero Bergomi gambizzandolo seduta stante sulla tribuna del Maracanà. Insomma Fabio è fenomenale.
Se analizza invece no, pare troppo arrabbiato, sembra risentito con qualcuno che, magari, gli deve dei soldi. E io mi chiedo il perché: mica lo paga la Figc, lo stipendio glielo dà Sky. Quindi esagera. S’impegnasse almeno un po’ a viversi il post match con meno verve. Passate tre ore il calcio torna a essere uno sport: la rabbia è svanita, per tutti noi la mattina dopo ci sono l’ufficio, i bambini da prendere a scuola, la moglie che ha un impegno imprevisto. La (faticosa) normalità. E per chiacchierare a mente lucida va benissimo Sconcerti, tranquillo, mai una parola fuori posto, perfetto la domenica notte. A me ricorda le prime righe di una vecchia canzone di Vinicio Capossela, un capolavoro: “Parla piano e poi non dire quel che hai detto già. Le bugie non invecchiano, sulle tue labbra aiutano, tanto poi è un’altra solitudine specchiata. Scordiamoci di attendere il volto per rimpiangere”.
Comunque ascoltavo Caressa incazzato nero e non ero d’accordo. Perché per me il problema dell’Italia di Prandelli non sono né Abete né il presidente trafficone che ne prenderà il posto. Per me il fallimento ai Mondiali si deve all’intero Paese che ha perso la speranza. E quando capita scompaiono altre due cose che nel pallone sono fondamentali: la felicità e la fantasia. Non so come è successo perché non sono un sociologo, ma un giornalista, tra l’altro dei più miseri. E sono, come sempre, l’unica voce che ha un’altra idea rispetto a quella della massa. Mi sbaglierò eppure a me sembra chiaro: siamo perdenti perché siamo gli unici che non hanno un numero dieci, quello che ha doti non comuni e che si permette giocate eccezionali. Ce l’ha il Brasile, si chiama Neymar, ce l’ha l’Argentina ed è Leo Messi, ce l’ha la Colombia ed è la stella Rodriguez, nell’Olanda è Sneijder, nella Francia è Benzema. Gente che la risolve perché è straordinariamente più portata dei compagni che dopo 120 minuti sono stanchi morti e poco lucidi. Anche i fuoriclasse che però hanno qualcosa in più: l’estro. Una volta e non era tanto tempo fa eravamo gli unici ad averne due in rosa contemporaneamente col cinema che comporta: Rivera e Mazzola, Baggio e Giannini, Totti e Del Piero. E giù a dividerci. E a vincere nelle nostre notti magiche. Con questo o con quello, ma chissenefrega chi gioca titolare, comunque sarà un successo. Perché tutti e due sono super, hanno un cervello calcistico superiore: gli altri la darebbero a sinistra, loro vanno in porta, fanno gol e buonanotte agli avversari che se ne tornano a casa.
Sono un cronista, non sono né Sconcerti, ma neppure Caressa, quindi risposte non ne ho. Sono un musicista e so che non è solo il pallone. Ligabue e Vasco Rossi cantano lo stesso riff da decenni e sono i soli che ci guadagnano e che fanno concerti, i talenti, Brunori o i Saluti da Saturno, parlano di un mondo diverso e la radio non li passa mai e finiscono o a fare la fame o a lavorare in posta. Sul pallone chiedo, invece, ai nostri lettori perché la gran parte di loro è implicata nei settori giovanili. Cosa succede quando c’è un fenomeno? Gli dite di adeguarsi al grigiore generale? Perché non arriva in Serie A? E’ colpa dei vivai? Oppure non nasce?
Io sono soprattutto un padre, ho due bambini, Vinicio e Zeno, la cosa più bella. Non m’importa la strada che sceglieranno, ma voglio che l’affrontino in modo originale. Come nessuno mai. Con la speranza, il coraggio e la fantasia dei fuoriclasse che amo perché regalano emozioni. E mi manca non ce ne siano due da vedere in televisione o a teatro tra oggi e domani: uno in maglia azzurra, l’altro in concerto al Donizetti di Bergamo con la sua band.