di Matteo Bonfanti
L’altro giorno, che era domenica e c’erano tantissimi articoli da impaginare, mi sono preso la mia solita mezzoretta a coccolare i miei strambi pensieri. Sono uscito fuori dalla redazione e mi sono fatto la famosa doppietta, la sigaretta dopo l’altra che si pippano i fumatori di un certo livello, quando sono ispirati su una minchiata che non frega a nessuno, ma che loro trovano di fondamentale importanza.
Pensavo alle parole, al loro significato, a come cambia rispetto all’uso che se ne fa. La riflessione mi è partita perché stavo titolando un bell’articolo di Fortini, l’ultima iniziativa della Grumellese, la collaborazione a trecentosessanta gradi con la Dynamic Star che è una squadra di pallone formata da ragazzi diversamente abili, parecchio appassionati, che sognano di fare un campionato nazionale contro altri come loro. Bella idea. Però non mi ha colpito il progetto, che è nell’aria da qualche anno, la mia testa si è messa a girare sul “diversamente abili”, l’ennesimo modo per definire chi ha la sindrome di down. Mi sono detto che era un modo piacevole, con un suono di un certo spessore e giusto, politicamente correttissimo.
Poi mi sono fermato. E mi è venuto addosso un incredibile sgomento pensando all’uomo che di lavoro fa quello che decide come bisogna chiamare i disabili, uno che in questi anni ha fallito troppe volte e che sicuramente soffre. Ora ha fatto il suo personale capolavoro, ma durerà? Mi ci vedo già, che sono sulla trequarti e in area, liberissimo, c’è l’attaccante che gioca con me, e io non gliela passo perché sono un veneziano e finisco per perdere il pallone. Gli avversari vanno in porta e segnano. Lui mi guarda incazzato e mi dice: “Sei un diversamente abile”. E per l’uomo citato prima, quello che di mestiere dà il nome ai disabili, è un colpo al cuore, una coltellata, che è ancora tutto da rifare e deve rimettersi di buzzo buono, isolarsi dagli affetti e tirar fuori un’altra genialata, ma non è facile perché di parole alternative non ce ne sono davvero più. E piange perché ci sta male e non sa che fare.
Ripercorro la mia storia, chiedendogli scusa, che sono stato anch’io. Sono partito alle elementari che Pippo era un mongolino, poi ci siamo messi a offenderci così ed è diventato un mongolo, quindi un mongoloide. Solita baruffa e si è passati a down, ragazzo con la sindrome di down, handicappato (che è durato pochissimo), portatore di handicap, disabile (ancora in voga, ma già usato con disprezzo). L’uomo trovava la parola nuova, noi la trasformavamo in un’ingiuria perché siamo cattivi con le minoranze. Ci sentiamo migliori perché siamo di più. Ci crediamo normali, chissà con quale diritto. Gli altri? Sono spazzatura.
Scendo in campo, chiedendo un aiuto ai lettori. Quando siete a litigare fitto con il vostro compagno pippone, che sbaglia a tre metri dalla porta, oppure siete immersi in una sfuriata con vostro padre che non vuole finanziare l’ultima impresa che avete partorito, scegliete tra questi due insulti: “Sei proprio il tipico maschio caucasico” o “Sei il solito occidentale gradasso”, quello che fa le guerre, che distrugge il pianeta, che ruba se sta al potere, che ammazza per due soldi. I down non lo fanno. Ti abbracciano forte.