Ti ho visto, mi hai visto. Eri intento ad ascoltare sul tuo tablet una mia canzone, manco la migliore, “Pesciolini”, che ho scritto vent’anni fa, sballato perso, mentre intorno a me girava una Mathmos, la lampada inglese. Mi hai detto: “Ho letto il tuo articolo, solo potevi scriverlo che ero qui, in questo ospedale, per perdere peso”. Allora ti ho mentito, uguale uguale a come facevo da ragazzino, mille balle blu prima che di notte prendessi la Lambretta per venirmi a cercare all’oratorio. Ho farfugliato: “Non l’ho detto per la privacy”, che io di mio neppure so cos’è, perché per me resta sempre e solo Marquez, che si vive per raccontarla.
Il motivo è un altro, c’è che sul letto eri bellissimo, come sempre, in forma, zeppo di fascino, di sorrisi e di parole nuove, per questo non ho scritto nel mio pezzo come mai eri a Ponte San Pietro, lì perché grasso. Non lo sei, non lo sei più, e poi per il tuo bambino non lo sarai mai. E vengo a trovarti, nel reparto “disfunzioni nutrizionali” (ma come avranno fatto a chiamare qualcosa così, con che coraggio?), ma perdo la strada, il più delle volte finisco in cardiologia, ci metto mezz’ora, l’ala nuova non mi torna, del resto lo sai, io e te a Piacenza, la macchina smarrita tra le pieghe del centro, noi due che nemmeno Indiana Jones alla ricerca dell’arca perduta.
Film, anzi filmissimi, splendido ragazzo mio, che, mortacci tua, ogni sera, morto e sepolto dal lavoro, comunque devo vedere, dandomi come obiettivo l’inizio e la fine, ma, come tu sai, non accadrà perché non è successo mai, al quarto d’ora mi addormento e il giorno dopo me la invento. Ma più di quel nostro appuntamento, tra noi due è sempre la musica che gira intorno, le notti, attaccato a te, prima di dormire. Così stasera, finita l’Atalanta (e lo so che pure tu ormai ci sei dentro…), sono tornato a casa con l’immensa voglia di suonare “Canzone per Francesco”. C’era Zeno, il mio secondogenito, il nipotino che più ti somiglia, un altro notturno, di quelli “che han sempre odiato le mattine”. Stava sul divano ad aspettarmi, aveva voglia di parlarmi, di raccontarmi della sua tastiera, il suono che fa, le basi, i tamburi, la batteria che ci può mettere. Mi ha spiegato, ci siamo abbracciati, gli ho messo il brano al computer. Vecchioni eri tu, “che il giornalista in fondo è un modo di campare e alla ragazza greca traducevi piano Luci a San Siro e gli imbonitori sono troppi e non li fermi e Dio che è morto non è morto per tre giorni”. Eri tu, tu con me piccolo, tu con noi, ora.
In sala eravamo io e Zeno. Ma c’eri, nell’aria, come sempre. Eri i nostri occhi, le frasi che ci stavamo dicendo, che ci permettevamo, il loro suono, quello sguardo da Bonfanti, l’ostinata convinzione che si deve vivere e ridere anche quando si vorrebbe essere lontano da qui, eri l’amore per gli ultimi (e che capolavoro la tua poesia per il popolo dei cicci). Eri quello che volevamo diventare, eri come quando fuori piove (e si sta a letto, stretti stretti, ad ascoltare dischi senza pensare a cosa capiterà domani), eri, insomma, la nostra musica in sottofondo.
Solo questo, ho in mano la chitarra e ci tenevo a ringraziarti, pubblicamente, tu che sei il primo e unico parente beccato casualmente ad ascoltare una mia canzone, il solo che mi chiede di scriverne senza paura anche quando sono (piccole) miserie. Di te tantissimo d’altro, ma più di tutto la libertà.
Sei stato e sei un padre meraviglioso, che ho imparato col tempo e sulla mia pelle non è un mestiere facile. Grazie, Marco, babbino mio.
NB – Nella foto di qualche anno fa mio papà è il più strano e il più bellino. Sta in fondo, con la camicia a quadrettoni, in posa da modello
Matteo Bonfanti