di Matteo Bonfanti
Che Percassi sia il più straordinario comunicatore della recente storia calcistica bergamasca, l’abbiamo capito più o meno tutti già nell’estate del suo secondo approdo alla presidenza dell’Atalanta. Slogan semplici, in dialetto, in una terra, la nostra, dove negli ultimi due decenni il leghismo l’ha fatta da padrone. Mitica la frase “a’m g’ha de turnà sö söbet!”, ripetuta un’intera stagione e poi stampata su migliaia di magliette il giorno del ritorno in Serie A. Pullman scoperto, palco gigante in pieno centro, bandiere dappertutto: festa splendida e faraonica, manco si fosse vinta la Champions League. Allora ero stato colpito dal Percassi illusionista, in grado di trasformare qualcosa di incredibilmente normale (una promozione della Dea dalla B) in un momento unico e irripetibile, la Notte Nerazzurra, un sogno collettivo da cui ci stiamo svegliando ora, più di due anni dopo. L’Atalanta 2012-2013 non è piaciuta a nessuno.
Non ha entusiasmato né i tifosi né i giornalisti e la colpa non è da attribuire a Colantuono, ma solo alle scelte societarie, tornate identiche a quelle dei predecessori dell’attuale numero uno. Si vendono (bene) i talenti (Gabbiadini, Padoin, Peluso e Schelotto) e al loro posto arrivano giocatori low cost, sempre su d’età (Biondini, Del Grosso, Brienza). Normale che il gioco s’impoverisca e che le vittorie diminuiscano. Ci fosse stato al timone Ruggeri, la contestazione sarebbe iniziata a gennaio, quando la squadra non brillava e a Zingonia si faceva cassa. Con Percassi si sente qualche mugugno, sempre, però, nei confronti di Marino. Antonio resta il santo protettore della Dea bergamasca. Perché? Per la sua incredibile intelligenza, che, nel periodo più nero della crisi economica che investe l’Italia, fa passare il pareggio di bilancio della sua società come qualcosa di cui tutti noi dobbiamo andare fieri. E il popolo nerazzurro lo segue, annuisce e smette di borbottare, dimenticandosi che l’Atalanta non è un club ad azionariato popolare, ma ha un proprietario e le casse nerazzurre, vuote o piene che siano, sono solo affar suo.
Percassi, che è un genio, ci ha cambiato nel profondo. I tifosi (anche noi giornalisti facciamo parte di questa categoria) amano spassionatamente il Moratti che spende e spande (per portare Mourinho ed Eto’o a Milano) e non sopportano la sua brutta copia, quello che sta attentissimo al budget, svendendo Sneijder al Galatasaray perché il fantasista olandese ha un ingaggio troppo alto. Si innamorano del Berlusconi che arriva con l’elicottero portando in dono Gullit e Van Basten e attaccano la figlia Barbara, che nel valzer del consenso elettorale, deve recitare il ruolo della donna dei conti: giovane, bella e cattiva. A lei l’onere di cedere Thiago Silva e Ibra al Psg e di prendersi i fischi dei pochi e irriducibili tifosi rimasti abbonati in curva sud. A Roma hanno nostalgia di Cragnotti che vinse uno scudetto, lasciando poi il club con debiti superiori ai cinquecento milioni di euro, Lotito, che ha evitato il fallimento dei biancocelesti, ha subito l’ira funesta dei suoi ultrà per anni, ininterrottamente.
Giusto? Sbagliato? Così deve andare perché, se si esclude il solo Barcellona, il legame tra una società e i suoi tifosi non è di tipo economico. E’ puramente sportivo. Più si vince, più diventa stretto. Se mi compri Balotelli, diventi il mio dio (e voto anche il tuo partito); se mi vendi Jovetic, vengo sotto la sede a insultarti e a tirarti i petardi.
Percassi, in questo senso, è un’incredibile eccezione, perché, a differenza dei suoi colleghi, è stato capace di far passare il messaggio che l’Atalanta non è sua, ma di tutti. Anzi di più: Antonio ci fa credere che la sua Dea è addirittura un bene della nostra città. Esattamente come le Mura. O come il Comunale. Che il nostro vorrebbe in concessione per novantanove anni. Farebbe l’affare del secolo: un impianto-centro commerciale in quell’area (tra Borgo Santa Caterina e Monterosso), la più popolosa, quella che sta diventando il nuovo cuore pulsante di Bergamo, perché è la zona dove abitano le famiglie. Padri e madri a fare la spesa, figli fuori a bere, tutti vicini-vicini nello stadio che un tempo era nostro. E ora è di Percassi.