di Matteo Bonfanti
Il mercoledì pomeriggio io e mio figlio Zeno portiamo a casa due bambini biondi e bellissimi, piccole anime meravigliose che più o meno un mese fa hanno perso per sempre la loro mamma. Arrivo un attimo prima del suono della campanella e chiacchiero un po’ coi genitori presenti. Prima mi evitavano, che mi vedevano un tipo strambo forte, credo per via dei cappelli da anziano che adoro portare. Ora, invece, si avvicinano, l’altro giorno un papà mi ha pure toccato, mi ha preso il braccio ringraziandomi a nome di tutti perché dedico un (piccolissimo) tempo ai due bimbini rimasti orfani della loro amatissima madre. Non lo faccio per bontà, non sono il tipo, né per una ritrovata fede cattolica sulla via di Damasco, ma semplicemente perché i due piccolotti in questione sono ometti assai teneri, educati, simpatici e svegli, che è piacevole avere vicino. Stanno lì, beati, ore e ore sul tappeto a trafficare con le carte Pokemon. Non gli chiedessi a un certo punto di venire a tavola, manco mangerebbero tanto si divertono a giocare a scambiarsi Pikachu con Ash o con Armonio o con Cetra (ormai sono diventato un esperto del settore).
Lavoro con le parole, mi è capitato di spendere così la mia esistenza, e le frasi mi arrivano solo quando osservo attentamente chi ho intorno. E dopo migliaia di articoli mi accorgo che frequento la vita nella totale deformazione professionale, ormai sto attento a tutto, e neppure più per scriverne, mi viene naturale. Da giorni li stavo a guardare chiedendomi cosa sentissero i miei due bimbetti del mercoledì nei loro minuscoli e inesperti cuori di sei e otto anni. Mi domandavo come stessero processando la scomparsa di una donna eccezionale come la loro mamma, per ognuno di noi la prima cosa bella, la rilassante e meravigliosa visione dopo quel terribile incubo che penso sia il parto. La risposta me l’ha data per caso ieri il più piccolo dei due, mentre gli chiedevo cosa volessero per cena. Il viso illuminato, sorridente, sicuro: “Vogliamo la pasta al pesto come ce la fa la nostra mami, con il Philadelphia sopra che la rende buonissima”.
E io, piccolissimo uomo, nell’angoscia che mi dà persino la perdita del mio criceto, sono uscito sul terrazzo a fumarmi una sigaretta. Avevo bisogno di fissare il momento, di tenermi nel cuore quell’inaspettato insegnamento: chi amiamo, non muore mai, resta, continua a vivere nelle nostre parole.
Nella foto: un’immagine da “La prima cosa bella”, film di Virzì