Io non so com’è per i tifosi, cosa sentono dentro ai loro meravigliosi cuori, come battono, quando e perché. Non lo so e non posso manco saperlo perché non sono un tifoso. Non lo sono stato mai, neppure da piccino, con mio babbo a Barcellona, in braccio a lui, stretti stretti in un immenso Camp Nou, mentre Van Basten e Gullit segnano gol a grappoli e vincono la Coppa dei Campioni. Io di quella partita non ricordo niente, solo mio papà che mi stringe la mano e all’improvviso sento addosso che la sua pelle è qualcosa di bellissimo, qualcosa che anche ora, che ormai sono grande grande, se ci ripenso, vorrei ancora. In più scrivo di pallone, è quello che mi è capitato di fare, e raramente un giornalista sportivo si innamora di una squadra. Sono troppi i retroscena che sappiamo, ci fanno apparire il calcio diverso da quello che è per il mondo, per tutti è una favola, spesso per noi cronisti è il contrario, è la massima rappresentazione della miseria italiana.
Eppure, ultimamente, l’Atalanta mi commuove. Mi è successo a San Siro, finita la partita col City, mi è capitato anche ieri, scrivevo le pagelle e mi venivano le lacrime, non tante, qualcuna, ma bella grossa. Sarà anche il mio momento, di scelte necessarie e dolorose, sarà che io ogni anno a dicembre mi rinchiudo tra i pensieri peggiori, diventando fragile, una foglia. Ma c’è pure dell’altro, c’è che quando scende in campo la banda del Gasp, mi ricorda i valori con cui sono cresciuto, portandomi a farne i conti.
E non è solo Davide che batte Golia, che comunque mi muove tantissimo perché da sempre sono a mio agio quando mi siedo tra gli ultimi della fila, c’è pure un sacco d’altro ed è tutto legato ai miei sentimenti più intimi. E’ tentare di superare ogni volta i propri limiti grazie al coraggio e all’impegno, è partire sfavoriti per poi ribaltarla, è l’idea che niente sia impossibile se davvero ci si crede. E’ moltissimo di quello che penso anche qui al giornale, cioè che nella vita si è tutti sulla stessa barca, a remare nella stessa direzione, il presidente come l’allenatore, il capitano di mille battaglie come il ragazzino della Primavera, lo sponsor milionario come il tifoso che canta a squarciagola dai gradoni di un bruttissimo stadio in Ucraina, con zero gradi addosso e le ginocchia che tremano. E la vittoria arriva perché c’è tutto questo, ogni elemento che fa la sua parte. Così al Bergamo & Sport, che vale perché c’è un direttore, che sono io, ma anche perché ci sono Marco, Monica, Silvia, Carmelo e la passione dei nostri cento collaboratori, quelli storici come gli ultimi arrivati.
Non me ne vogliano interisti o juventini, ma l’Atalanta ha un valore sentimentale che i carriarmati della Serie A non possono avere. Sono la Dea quando scrivo, che al Liceo al mio primo compito in classe d’italiano ho preso quattro e mezzo, per poi leggere ogni giorno chi sapeva farlo, cercando di imparare. Sono la Dea mentre suono, che ho passato tutte le sere del mio ultimo decennio ad esercitarmi su una chitarra, che era un’angoscia solo a vederla e adesso è il porto dove approdare la notte per ritrovare il sorriso. Sono la Dea coi miei figli, dedicandomi a loro con allegria, ma pure con un sacco di pazienza: stasera al Mc Donalds per coccolare Zeno prima di preparare l’interrogazione di storia con Vinicione. Sono la Dea con la donna che amo, che mi è capitato di essere bruttino e ho imparato a metterci le parole, il mio cuore. Proprio come l’Atalanta del Gasp.
 
Matteo Bonfanti