Di Roberto Baggio solo due cose, l’immensa poesia con cui stoppava il pallone, quasi gli calasse sui piedi servito direttamente da Dio, e le notti magiche, l’estate del 1990, Primolo coi preti e tutti i miei soci, la vacanza più bella della mia vita perché il pomeriggio giocavamo tra noi, ognuno con la sua maglietta azzurra per via delle Kinder Fiesta, e la sera vedevamo lui. Roby non era la stella, a quei Mondiali infatti lo era un altro che tutt’ora amo, Totò Schillaci, ma il ragazzotto di Caldogno era già quell’idea meravigliosa, vissuta poi così solo quel giorno col Barcellona con Savicevic, il pallone è estro, più dolce di fare l’amore, più esaltante di una sveltina. Non serve un gran fisico, occorre solo classe e fantasia.
E Baggio non lo sa, ma io a quell’epoca, i miei quattordici anni da mediano appena acquistato dall’Olginatese, sognavo di arrivare in Serie A per consegnargliela sulla trequarti, per fargli trasformare su quel campo l’acqua in vino, la mia modesta prosa da povero cristo, già allora a scribacchiare, nella poesia di mio babbo, genio, colto e letterato, che stava facendo la rivoluzione.
Ho pianto per il Divin Codino la sera di quel maledetto rigore, ma un attimo dopo ho fatto l’amore al mare, sicuro che avremmo vinto l’edizione dopo grazie a lui. Ho amato ogni suo infortunio, che pure io ho fatto sei interventi alle ginocchia e tra poco vado a giocare. Mi piaceva da matti che sorrideva sempre, che era buddista, che non ha mai mollato i suoi amici, che aveva un legame speciale con quell’incazzoso di Mazzone, un altro di cuore.
Ho visto il film, bello, bellissimo, sull’uomo e le sue miserie, ma io l’avrei fatto diverso, piuttosto Roberto Baggio su un campo di periferia, ad Azzano, a Montello, a Cavernago o ad Albino, in uno dei tanti paradisi del calcio della nostra provincia, perché per me e per la mia generazione quando giocava era un angelo, con Diego Armando Maradona uno dei due santi del dio pallone.
Matteo Bonfanti