di Matteo Bonfanti
Natale se n’è andato. Con lui l’insita bontà del momento. Eccoci qui, quindi, a sparare un po’ su un’Atalanta che più triste non si può alla vigilia di una sfida, quella col Catania, che i nerazzurri non possono sbagliare per tanti motivi. Su tutti la classifica. Un eventuale ko farebbe entrare i ragazzi di Colantuono nel novero delle candidate a giocarsi la salvezza fino alla fine. Di contro una vittoria allontanerebbe le pericolanti, attualmente distanti quattro (Sassuolo) e cinque punti (Livorno e Catania), e darebbe alla Dea la possibilità di affrontare l’altra cruciale sfida interna col Cagliari con molta più tranquillità. Che ora pare mancare. Colantuono è nervoso, almeno questo è quello che è sembrato trasparire nella conferenza stampa che ha seguito la sconfitta in casa del Milan, quando il tecnico di Anzio si è stizzito, sbottando, a causa di una domanda (innocua) di Andrea Losapio del Corriere della Sera. Possono i sette gol incassati contro la super Juve di Conte e in casa di un Milan arrivato comunque agli ottavi di Champions aver minato la tranquillità di un mister che conosce Bergamo come le sue tasche? Ovviamente la risposta è no. Il malessere ha radici più profonde e riguarda il futuro. Il consenso intorno a chi siede in panchina è infatti ai minimi storici. Lo si avverte leggendo i commenti su atalantini.com, da sempre un buon termometro dell’umore degli appassionati bergamaschi, ma anche prima della partitella a Orio al Serio il giovedì sera con gli amici, molti accaniti tifosi nerazzurri. Che, pur timidamente, difendono il mercato di Marino (“rosa attrezzata per salvarsi”) e attaccano Colantuono (“Migliaccio al centro della difesa non si può vedere, Baselli non è il sostituto di Carmona, De Luca deve giocare dall’inizio”). Avanti così, a giugno, l’impopolarità potrebbe costare carissima all’allenatore. Perché Percassi è, innanzitutto, un genio del marketing. E tutte le sue creature, da Oriocenter fino al nuovo punto vendita Kiko in Città Alta, devono far sognare. Se la Dea smette di farlo, vanno cambiati gli interpreti, partendo dal manico.
Il problema è proprio qui e investe anche la società. Sant’Antonio è stato fino a ieri l’uomo designato a realizzare il secondo miracolo nerazzurro. Il primo coi Bortolotti, 1987-1988, Stromberg, Nicolini e la semifinale di Coppa delle Coppe col Malines. Quattro anni fa l’insediamento di Percassi con l’intera piazza che s’infiamma immaginando sia l’inizio di un’altra età dell’oro. La speranza diventa subito certezza per merito della fantasmagorica rosa allestita dal nostro per affrontare il modesto campionato di Serie B. Spese faraoniche per assicurarsi i migliori sulla piazza (15 milioni di euro), lavori a Zingonia, big trattenuti a forza, stadio sempre pieno grazie alle intelligenti offerte low cost della nuova proprietà. Poi, col passare delle stagioni, tanti leggeri cambi di rotta, mai vistosi, ma continui. Nell’ordine: la cessione di talenti grandi (Padoin, Peluso e Gabbiadini) e piccoli (Barlocco) alla Juve (che non è il Brescia, ma quasi), l’arrivo di giocatori a fine carriera (Scaloni, Brienza e Yepes), i prezzi al Comunale in linea con quelli delle altre di Serie A.
Va così che la luna di miele dura tre stagioni. Nella quarta la passione si affievolisce. Nulla che faccia pensare a un imminente divorzio tra le due parti (società e tifoseria). Di certo, citando De André, l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza. Che, si badi bene, non si spegne, allontanando contestazioni che, senza spettacolo e con pochissimi investimenti sul mercato, sarebbero persino legittime. Se non piovono fischi è perché il Percassi bis ha dalla sua i risultati: una Dea sempre salva nonostante in due occasioni su tre sia partita con una penalizzazione (-6 e -2).
Restiamo dell’idea, però, che la distanza tra la gestione Ruggeri e quella targata Percassi sia minima. Il sospirato salto verso la zona medio alta della graduatoria non c’è stato: la Fiorentina resta un miraggio, ma pure il Verona. Che spende poco come l’Atalanta, ma in maniera più intelligente. Merito del suo uomo mercato, Sogliano, in procinto di passare al Milan affiancando Barbara nel difficile, ma ormai irrinunciabile dopo Galliani. Pochi euro, tantissime idee: il diesse scaligero è il regista di operazioni che hanno del clamoroso. Facciamo qualche nome: Jorginho che, comprato a 35mila euro, ora vale la bellezza di 15 milioni; Toni che, dato per finito e ingaggiato ai prezzi dei grandi saldi, ha già segnato nove gol, risultando, assist alla mano, il vero trascinatore dei gialloblù di Mandorlini; Iturbe, sconosciuto ad agosto, fenomeno già in orbita Roma a gennaio. Si può vincere (e fare un sacco di soldi) pur senza avere da investire i milioni della famiglia Agnelli o di De Laurentiis. Basta saperne un po’ più degli altri. L’appunto è per il diggì Pierpaolo Marino che nel triennio bergamasco ha fatto registrare una grande intuizione (German Denis), un’operazione che solo il tempo dirà se giusta o sbagliata (i 5 milioni versati al Velez per Maxi Moralez) e parecchi buchi nell’acqua (quest’anno il ritorno di Migliaccio e l’acquisto di Nica, quasi mai utilizzato da Colantuono).
Nel difficile momento atalantino ci sono lamentele pure per un’iniziativa che un tempo sarebbe stata applaudita da tutti: quella del paghi uno, prendi due. Biglietto per la sfida col Catania a un prezzo stracciato (curve e distinti a 5 euro, tribuna Creberg a 11) e in regalo il tagliando per la successiva gara interna, quella col Cagliari. Alcuni tesserati, che pagano il doppio (Nord e Sud, ad esempio, a 9 euro e 94 centesimi a partita), si sentono un po’ dei pirla ad aver acquistato un abbonamento che ai loro occhi pare, ora, un tantino sconveniente.