Io vorrei solo tornare da lei, dalla mia Dea.
Sia chiaro, non ho bisogno di tornare all’Atalanta per vivere, ma per sentirmi vivo.
Con mio papà accanto, coi miei figli che mi stringono la mano con gli occhi sbarrati per lo stupore delle incredibili emozioni condivise.
E poi per riassaporare quell’urlo che si sprigiona all’unisono, in quel catino gonfio di battiti accelerati, con quel perdere quasi i sensi, quando si gonfia la rete sotto la Nord.
E quell’odore di fumogeni, quell’aria fredda della Maresana, quei colori così accesi che ti accendono, quel brusio prima di un rigore, quegli abbracci così forti con gli occhi negli occhi di uno sconosciuto, che ha la tua stessa passione, che ha il tuo stesso orgoglio tatuato dentro il cuore.
Faccio fatica a scrivere della mia Atalanta in questa seconda estate balorda, che ha sempre più il sapore di negazionisti, e di persone anti-qualcosa, qualsiasi cosa.
Vedo, leggo e ascolto solo gente che vuole scannarsi per certezze che non esistono.
Io vivo di famiglia, lavoro e Atalanta.
Da sempre, e tutti lo sanno.
Eppure, in questo momento, sento di vivere la mia Atalanta col freno a mano tirato.
Come osservare il mondo da dietro un vetro, senza poterlo mai toccare, come fosse un documentario in alta definizione che non hai filmato tu, che non hai vissuto tu.
Io non riesco proprio ad appassionarmi alle telenovelas estive di calciomercato.
Nemmeno mi appassionano le diatribe sul calendario, tra chi analizza in maniera applicata e ragionata i vari incontri che si succederanno.
Per non parlare di chi studia e giudica le nuove maglie della Dea, fresche fresche di giornata.
Io non ce la faccio proprio a parlarne, eppure mi ritrovo qui a scrivere ancora di lei.
Della mia Dea Atalanta.
Perché io vorrei solo tornare da lei, con papà accanto, coi miei figli che mi stringono la mano.
Per spalancare ancora gli occhi alla vita.
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