di Simone Fornoni
Uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi. Mille su diciannovemila e rotti, tanti sono i posti disponibili al Gewiss Stadium per le partite dell’Atalanta fino all’ultima tranche della ristrutturazione che partirà la prossima primavera, saranno invece i privilegiati che potranno accedere ai match casalinghi degli eroi del pallone alla luce della molto parziale riapertura degli incontri sportivi al pubblico. E già montano le polemiche sulla base delle indiscrezioni raccolte dal dorso di Bergamo del Corriere della Sera, che ha scritto di ingressi sostanzialmente limitati a sponsor e partner commerciali.
A essere ammesse, si apprende, sarebbero soltanto persone legate a sponsor e partner commerciali di un club sempre meno provinciale e sempre più noto a livello globale, al punto da essere diventato l’immagine di marca dell’intero mondo produttivo tra il Brembo e il Serio. Non è un caso nemmeno l’appoggio dei piani alti di Zingonia all’offerta pubblica di acquisto e scambio (OPAS) che ha portato Intesa San Paolo a inglobare il precedente banking partner UBI cambiando anche il nome alla ex Tribuna Giulio Cesare, denominata “Rinascimento” come il piano di finanziamento straordinario del colosso torinese alla ripresa economia orobica nel tormentato periodo post quarantena totale.
Le ragioni e il colore dei soldi, anche per una società che tra inverno ed estate ha dovuto rinunciare agli incassi al botteghino come del resto tutte le altre concorrenti del pallone di vertice, non possono essere declassati ad aspetti secondari di un calcio che spaiato dal business a certi livelli non consentirebbe di acciuffare gli obiettivi da fantascienza pura raggiunti dalla Gasp-band nelle ultime quattro stagioni piene. Orfana di introiti da stadio veri, anche l’Atalanta di fronte alla fantomatica e ingiustificata quota mille, mentre i sostenitori della Curva Nord procedono al motto di “tutti o nessuno”, è ovviamente chiamata a far selezione. Impossibile, per converso, stabilire regole e tetti all’accesso unicamente sulla base della fidelizzazione, leggi tifosi con più anni di abbonamenti alle spalle, e di un’improbabile meritocrazia. Mille anime pie da sparpagliare qua e là sono mero contorno, almeno su questo bisogna intendersi. Il tifo da stadio è tutt’altra cosa. In mille non si spostano gli equilibri, non si è il dodicesimo uomo in campo. Forse giusto un po’ più dei cartonati o dei bandieroni usati per coprire i settori.
Il calcio senza tifosi a gremire gli spalti non può piacere nemmeno ai colossi della televisione che detengono i diritti di trasmissione delle partite. Non a caso in crisi pure essi. Perché se sul campo si fa comunque sul serio, il silenzio di tomba penalizza il contesto, l’ambiente, la scenografia, fino ad annullare tutti questi aspetti assolutamente coessenziali alla buona riuscita del prodotto. Il Coronavirus – che non è lo stesso spauracchio invernale e primaverile, i contagi sono per lo più asintomatici – avrà cambiato sì le nostre vite, ma non si può certo tirare a campare nel segno della paura perenne, delle restrizioni che suonano punitive e delle umiliazioni per una vita sociale sempre più atomizzata, quand’anche gli spettatori fossero contingentati sulla base di una percentuale socialmente distanziabile e muniti di mascherina, altra roba che prima del 5 aprile pareva non valere alcunché e adesso viene spacciata per accessorio irrinunciabile.
La proposta più ragionevole, in questi tempi d’incertezza portata all’estremo e all’esasperazione, per colpa di una narrazione quotidiana da bollettino di guerra, sarebbe semplice, terra terra, umana, pratica e anche ammantata di amoroso idealismo: stabilire quote d’ingresso al santuario del pallone per quarti. Una volta, of course, fornita dalle autorità la capienza ridotta impianto per impianto. Un quarto di biglietti/ingressi riservato a medici e infermieri, aggiungendoci i volontari a vario titolo (alpini, associazioni per consegna della spesa, et cetera), i veri eroi di un 2020 da buttare al netto delle emozioni Champions; un altro quarto ai tifosi con più anni di tesseramento; un terzo quarto ai ragazzi dei settori giovanili, non solo quello nerazzurro, con relative famiglie, a rotazione; l’ultima fetta, infine, a sponsor e partner. Perché il calcio pane e acqua, o pane e salame come predicava il sommo Emiliano Mondonico, a conti fatti non esiste più. E sono proprio i conti, sui tappeti verdi centocinque per sessantotto, a non tornare da parecchio. Facciamo che contino, nei limiti del possibile, almeno i fan, vogliosi di urlare tutto il loro sostegno e la loro speranza di un’esistenza migliore (leggi: il più normale possibile) alla squadra del cuore.