di Matteo Bonfanti
Pensieri dell’una e trentacinque circa di notte dopo una massacrante giornata a chiudere pagine su pagine, con il mal di gola e di ossa. Non so se avete presente lavorare dieci ore la domenica quando si è a un passo dalla prima influenza stagionale.
1 – Tornavo da Bologna, città meravigliosa, leggevo Pasolini, il suo pezzo mitico, quello del 1974. Il primo pensiero è quindi solo per noialtri giornalisti, ormai arrivati alla farsa, comici spaventati guerrieri, sempre sul chi va là, terrorizzati dalle querele e dalle critiche sui social.
Pier Paolo parlava delle stragi, distribuendo le colpe, non aveva manco paura di spiegare che a organizzarle a Brescia e a Milano era stato il potere: la Democrazia Cristiana, i generali, i fascisti e la Cia. Diceva: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
Questo articolo compariva sul Corriere della Sera che allora vendeva milioni di copie.
La crisi dell’editoria non è per colpa di Facebook, ma per la mancanza di coraggio di noi che scriviamo, col terrore di una denuncia, ma soprattutto di vedere una critica sulla nostra bacheca, dove tutto deve essere popolare e immacolato, pieno zeppo di amici adoranti che nei commenti alla prima pagina ci fanno dei gran pompini, “sei un genio”, “sei un fenomeno”, “sei il Garcia Marquez delle Orobie” . E noi, a nostra volta, ossequiosi, a ringraziare, ricambiando, con un post, un cuore o una leccaculatina pubblica al seguace nel nostro prossimo articolo, pezzo squallido, che non si leggerà nessuno e che nessuno andrà a comperare in edicola perché sarà un inchino, non il nostro mestiere che è scoprire segreti per rivelarli, divulgare verità scomode.
2 – Non riesco più ad aprire Facebook, a volte manco What’s App, Instagram mi fa vomitare e non sono loro, i social, ma questa Italia in vetrina, banale e offensiva, volgare, deprimente, cattiva, risentita, spesso penso demente, sempre priva di poesia e che non ha mai la cura necessaria quando si usano le parole. Noi italiani postiamo ovvietà odiose pur di avere i tre minuti di popolarità che si concedono a chi dice quello che innervosisce tutti: il negro che ti stressa al semaforo, la zingara che fa un gran chiasso per leggerti la mano o il pakistano che tenta di piazzarti le rose. Insulti al miserabile di turno e giù like. Dario Cercek, il mio primo capo, mi diceva: “Non scrivere se una cosa la sente chiunque, evita, non serve. Mettiti solo se hai da dire qualcosa che non sa nessuno. Scrivere è una fatica, fallo solo se ne vale veramente la pena, se è una novità”. E io resto così e voi adesso arrivate fino in fondo e non vi fermate alla terza riga. Vorrei solo che non mi criticasse il solo Bendoricchio, ma un sacco di persone. Significherebbe che ho fatto centro, che sono bravo nel mio lavoro, lo stesso di Biagi, quello di dare dei dispiaceri, di aizzare la polemica, che è qualcosa di bellissimo perché regala pensieri fini persino a noi, ombre smarrite nella fitta nebbia che si respira in Val Padana.
3 – La settimana scorsa ho fatto un’inchiesta, ho scoperto che più o meno a tutti i livelli i giovani calciatori non prendono una minchia, poco o nulla perché i soldi veri i presidenti li danno ai vecchi, il più delle volte ex campioni bolsi (il pallone è lo specchio della società a qualsiasi latitudine). Alcuni club si sono arrabbiati, perché non capisco “quanto i giovani giocatori siano straordinariamente fortunati rispetto ai coetanei, chiedi ai diciottenni che giocano a tennis, che in un mese sborsano mille euro, i nostri sul campo fanno ginnastica gratis”.
4 – I giornalisti che un tempo volevano la cacciata di Gasperini, da tre mesi sbrodolano e ci manca solo che lo propongano in Vaticano al posto di Papa Francesco. A Bergamo l’unico a difenderlo nel famoso pomeriggio dell’esonero sono stato io che amavo Gian Piero perché era il primo tecnico che non faceva il commercialista di Percassi e che metteva in panchina gli uomini d’oro per far esordire dal primo minuto egregi sconosciuti che non giocavano titolari neppure nell’Ascoli. Come si cambia, colleghi (per non morire). Che poi la fortuna è che la gente dimentica, anche perché legge pochissimo, la gran parte solo il titolo.
5 – In settimana ho raccontato due città, Albino e Seriate, centri che vivono momenti opposti a livello calcistico. Ho parlato di AlbinoLeffe, AlbinoGandino, Pradalunghese e Falco Albino, poi, in ultimo, ho detto: “Resta l’Oratorio Albino, l’unica compagine della zona impantanata nei bassifondi del proprio campionato, terz’ultima nel girone B di Seconda, quello di ferro, zeppo di big. Ma ai dirigenti poco importa, perché in parrocchia la filosofia calcistica è tutt’altra, ha una funzione puramente sociale. Non si guarda ai risultati, ma solo a togliere i ragazzi dalla strada, facendoli divertire col pallone tra i piedi”. Mi ha raccontato una persona in gamba, che non dice mai bugie e di cui mi fido, che tanti che fanno parte del club si sono parecchio “offesi, incazzati, criticandomi aspramente”. Il motivo? Me lo ha raccontato il presidente Acerbis, una persona in gamba, con cui ho parlato tanto in questi giorni, confrontandoci su cosa sia diventato il pallone nella Bergamasca. Mi ha spiegato che i tempi sono cambiati e che ora, anche all’oratorio, vincere è importante, fondamentale, è la benzina del pallone, in Serie A come in Seconda categoria. Mi sbaglio a pensare che ci siano club dove i successi e le sconfitte abbiano un identico peso specifico. Sono fermo a vent’anni fa, quando ero adolescente.
Così a Seriate, un discorso, il mio, pressoché identico a quello fatto per l’Oratorio Albino, un lungo applauso da uno che ha giocato per dieci anni nell’Aurora San Francesco, presidente Padre Marco, un frate, fenomenale ala destra quando non era impegnato a dire la messa. E i dirigenti rossoblù ci hanno persino scritto, piccati. Ho semplicemente raccontato da cronista sportivo la fine dell’Aurora Seriate di Aldo Terzi, un amico, senza entrare troppo in merito. Ho detto quel che è rimasto di buono di quella straordinaria scalata fino alla Serie D: “L’Aurora diventa un settore giovanile senza una prima squadra, nell’intento di Pievani e soci di dare continuità al solo progetto sociale: far giocare i bambini e i ragazzi della città per toglierli dalla strada e dalle brutte compagnie. Bene, benissimo, ma un conto è formarsi come calciatori con l’obiettivo di esordire un giorno in Serie D, l’affascinante approdo al semiprofessionismo, un altro è passare i pomeriggi al campo senza uno sbocco diretto”. Nel titolo dicevo la posizione di classifica delle prime squadre dei club seriatesi, tutte indietro. Ecco la replica, lascio a voi, l’hanno messo giorni fa anche sul loro sito: “Leggiamo storcendo il naso l’articolo pubblicato giovedì 23 febbraio sul sito di Bergamo & Sport. Già nel titolo il termine bassifondi rende l’idea di una non conoscenza profonda dello sport in Seriate. Quello che è stato è stato bello. C’era l’Aurora Seriate, una realtà solida nata dall’oratorio con una storia di 40 anni, che ha scalato le categorie sino serie D. A Seriate ora si festeggiano i 50 anni di attività di Aurora. Dopo il progetto Virtus Bergamo, c’è una realtà ancor più forte, con una presenza sempre più profonda nel territorio seriatese. C’è una realtà che ancora con maggior forza investe le proprie risorse sui giovani e giovanissimi. Noi abbiamo scelto di allenare ragazzi e bambini. Legare l’entusiasmo e la bontà del lavoro del calcio seriatese solamente alle vittorie delle prime squadre è riduttivo. Credere o voler far credere, che un progetto sportivo che parte dal settore giovanile e non dalla prima squadra, sia un modello senza futuro è un errore. Ci sono progetti e progetti. Noi abbiamo scelto di fare un percorso, quello a noi più congeniale, focalizzando la nostra attenzione sulla crescita dei giovani. Lavorare con i ragazzi in modo serio e prolifico richiede di investire sui tecnici ed istruttori formati e qualificati. Non andiamo al campo tanto per passare del tempo, non siamo sprovveduti. Riteniamo l’articolo poco serio nei confronti di un movimento calcistico che conta 230 atleti. Ci saremmo aspettati magari un colpo di telefono dove ci venisse chiesto quali sono i nostri programmi futuri, le nostre manifestazioni, i nostri campi estivi, il Trofeo “Città di Seriate”. Magari ce ne sarà occasione in futuro. Questo sarebbe stato un articolo costruttivo che avrebbe dato l’idea di cosa sia il calcio a per Aurora Seriate”. Non dico nulla, tengo solo a precisare che nel mio pezzo non c’era che “che gli atleti e gli allenatori dell’Aurora Seriate vanno al campo tanto per passare il tempo”. Penso, invece, e l’ho scritto migliaia di volte, persino nell’articolo contestato, che il calcio sia un paradiso quando ha una valenza sociale. E se non c’è un punto d’arrivo tra le super prime squadre dei dilettanti, il pallone diventa solo un meraviglioso gioco. Senza competizione e quindi senza stress.
6 – Manca Pasolini perché sono un giornalista che non può analizzare nulla, neppure apprezzare chi è terzultimo in Seconda eppure si diverte perché non gli frega di arrivare primo o chi non ha più una squadra in D, ma continua a sbattersi per far giocare i bambini della città. C’è chi s’incazza, anche a dirgli che sta facendo del bene, che sta crescendo dei ragazzi nel miglior modo possibile, su un campo di calcio e privo dell’idea di un ritorno monetario, buttandoci tempo prezioso solo perché ha addosso un cuore buono. Forse nell’epoca di Facebook è un’offesa, fa brutto, è un male, quindi non va detto. Di sicuro adesso, 27 febbraio 2017, dopo questa settimana ho compreso che il piccolo, l’oratoriale e il tenero sono visti come sfigati. Tutto deve essere formato pitbull, grande, grosso, estremamente competitivo, primo in classifica, con un sacco di “mi piace” tutti intorno, alla moda, glam e che fa parlare. Ma non è vita. E’ qualcos’altro, è quando la nostra esistenza diventa social e pompata e le ragazzine si sistemano le foto su Instagram con photoshop per apparire tali e quali a Belen Rodriguez, che è bellissima, ma è una figurina, un’icona e ci sta anche parecchio male.
7 – Da bimbino correvo in bicicletta, a Lecco, nel Gruppo Sportivo Mario Corti, avevo il talento di chi soffre, di chi nel cuore sta di merda, di chi vuole che la salita finisca al volo e arrivi qualcos’altro, anche solo una chiacchierata col compagno di squadra. Avevo otto anni, ho fatto la prima gara, a Morbegno, e sono arrivato primo. Eravamo sei nell’intera categoria, gli altri erano scoppiatoni, quell’anno avrei potuto vincerle tutte. Invece mi sono messo d’impegno e ho iniziato ad arrivare quarto, la posizione che amo, il primo giù dal podio, poetico, oratoriale e sfigato, non competitivo, uno da coccolare. Identico nell’amore: mi sono innamorato, un sacco di volte, mai di una donna gradassa e senz’anima. Sempre e solo di ragazze buone, tenere a dirmi Matti in mezzo agli altri, senza farsi vedere, sottovoce, una musica stupenda che su Facebook non c’è.