Una storia di emigrazione e di periferie, a un tiro di schioppo dalla Capitale; da quel caput mundi che tutto attrae e tutto divora, risaltando chiaramente da paradigma per l’Italia in tempo di Covid-19, con i suoi eccessi e le sue contraddizioni. Una storia che merita di essere raccontata, specie se rapportata alla più quieta provincia bergamasca, che per quanto non immune dalle criticità insite nel produttivismo e nelle isterie del mondo globale moderno non smette di aggrapparsi alla passione sportiva. Il calcio centra relativamente, meglio forse soffermarsi su quegli aspetti socio-formativi che competono, più in generale, allo sport e a quella fame ancestrale di aggregazione che ha portato – ci ha portato – a dibattere, più infervorati che mai, in tempi decisamente infausti, segnati dalla necessità di mantenere le debite distanze. Roma e Bergamo, la Nomentana e l’Isola Bergamasca, Tor Lupara e Brembate Sopra: due poli opposti, due modi radicalmente diversi di vivere la vita, eppure l’humus più congeniale per la crescita umana, professionale e, naturalmente, sportiva, di Guido Fiore, stimato allenatore in cerca di una nuova panchina e di un nuovo orizzonte di sfida. Un portentoso crescendo, nell’ultimo decennio, a caratterizzare la carriera del tecnico romano. Eppure, non c’è di ché meravigliarsi considerando la miriade di corsi frequentati, nell’ottica di un miglioramento e di un’autenticazione che, ad oggi, nonostante l’ultimo biennio di luci ed ombre, appaiono dato acquisito. La gavetta vissuta nel calcio giovanile; la consacrazione coincisa con il miracolo targato Atletic Almenno, fino al suggello occorso con la chiamata della società più blasonata della zona, il Lemine Almenno, per un’esperienza effimera ma pur sempre ricca di spunti di riflessione. Perché Guido Fiore da Tor Lupara – frazione di Fonte Nuova, a pochi passi da Roma e dal Grande Raccordo Anulare – non smette mai di imparare, assimilando i bocconi spesso indigesti e individuando nel gruppo-squadra, oltre che nell’aspetto motivazionale, la via preferenziale verso il raggiungimento degli obiettivi. La tecnica e la tattica servono eccome, ma da buon Sottoufficiale dell’Aeronautica Militare sa che cos’è il carisma e sa che cosa è disposta a fare una valorosa schiera di soldati, al servizio del suo, unico, impareggiabile, comandante. Idee chiare, valori netti e insindacabili, a disposizione di un tecnico che, accettando di raccontare la propria carriera, finisce per festeggiare vent’anni tondi tondi di permanenza in terra bergamasca. Per Guido Fiore, la terra adottiva e prediletta, nonostante i continui richiami che dall’altra parte continuano ad arrivare, attraverso i parenti più stretti e cari. “Mamma Roma”, di pasoliniana memoria, non smette di proferire umori e paradossi, che impastati nei ricordi della giovinezza sono destinati a restare un qualcosa di indelebile. Qualcosa che, volenti o nolenti, non si cancella e non si archivia.
Mister, subito una domanda a bruciapelo. Quali sono, se ci sono, le differenze tra il calcio romano e il calcio bergamasco?
“Il calcio è uguale in tutto il mondo. A cambiare semmai è il tipo di approccio, le modalità con cui uno si avvicina. Il calcio della mia giovinezza romana era quello della strada, delle periferie; quello dei piccoli spazi, che comunque venivano buoni. Si giocava da mattina a sera e anche se non c’era il sintetico tanto in voga oggi, non c’era la minima attrezzatura, non c’erano nemmeno le scarpe, eravamo in qualche modo preparati perché potevamo disporre di quella tecnica di base di cui c’è disperato bisogno oggi, soprattutto nelle nostre scuole-calcio. Oggi vediamo arrivare al campo bambini con difficoltà motorie, o con problemi ad apprendere la tecnica di base e questo accade perché non si gioca più all’aperto come si faceva una volta. Oggi di campetti nelle campagne ce ne stanno pochissimi. A Roma la chiamiamo la puzzolana. Noi giocavamo con il campo in puzzolana, nero da tanto che era battuto e malridotto, e ci giocavamo scalzi. Eppure davamo l’anima per i nostri allenatori; il nostro era un calcio da coltello tra i denti, intriso di voglia di vincere e di attaccamento alla maglia e al paese. Oggi non si può dire la stessa cosa. Oggi sembra che prima di tutto conti l’aspetto economico, legato al rimborso; sembra che si debba giocare sempre e comunque per i soldi, anche quando di soldi non ce ne sono. Mentre nel calcio della mia giovinezza, quello di borgata, che ho frequentato finché non ho intrapreso la carriera militare, il rimborso era sempre lo stesso, sia che fosse Prima, Promozione o Eccellenza. Per noi, più di tutto, era importante giocare per rappresentare il nostro paese”.
Raccontaci allora qualcosa della tua carriera. Che ci dici del Fiore giocatore?
“Anzitutto devo dire che non ho cominciato da subito col pallone, dato che fino ai 12 anni ero un judoka, peraltro di buone prospettive. E’ stata una carriera veloce, ero diventato cintura marrone, ma per ambire a quella nera avrei dovuto attendere i 15 anni. Allora ha preso il sopravvento il calcio dei campetti e delle periferie, almeno a partire dal giorno in cui mi notò un allenatore di calcio giovanile. Ero fuori casa tutti i giorni, giocavamo senza delimitare il campo a pochi passi dalla via Nomentana, tanto che le pallonate ci finivano eccome su quella strada. Fabbricavamo da noi sia i pali che le reti e l’unico nostro intento era quello di far valere il campanile di ciascuna borgata. Tor Lupara, pochi chilometri fuori Roma, era la mia borgata ed era la squadra in cui ho sempre giocato, tra Prima categoria, Promozione; arrivando a disputare l’Eccellenza.
Ricordo con piacere quei campionati, ma ricordo soprattutto le interminabili sfide, da mattino fino a sera, con l’unico scopo di far vincere i colori della propria borgata. Ricordo la Doganella, la Torre, Tor Lupara Est, Tor Lupara Nord: ci si conosceva tutti e si giocava ovunque, per far vincere la propria banda. Eravamo bande di amici, prima che compagni e avversari, e ripensandoci capisci come si stava bene, anche se non potevi disporre di molto. Ora è cambiato tutto anche a Tor Lupara e la situazione si è fatta critica. Qualcosa era nell’aria già allora, tanto che io e mia moglie abbiamo deciso di venire via non appena ci siamo sposati. Fintanto che certi valori non erano in discussione, si poteva aspirare a una vita dignitosa. Mia mamma aveva un negozio di abbigliamento per bambini, mentre papà era muratore. Nulla era semplice, ma anche grazie a un’educazione improntata su valori forti ne sono uscito bene. Col tempo, il paese si è riempito di gente provenuta da fuori, l’italiano non ha più accettato di fare il muratore o il carpentiere e chi prima lavorava alle dipendenze si è ritrovato a prendere direttamente in eredità la ditta del padroncino. E’ venuto meno il valore reale del lavoro, della fatica, del sacrificio, perché il soldo ha preso il sopravvento e chi oggi può disporre della sua bella sommetta non si accontenta e si mette a imbastire giri quanto meno loschi e poco raccomandabili. La stessa società di calcio, il Tor Lupara, ha avuto problemi e ora milita in Prima categoria, dopo alcuni anni di crisi e difficoltà di vario tipo. Mia mamma e mio fratello ancora oggi vivono a Tor Lupara; onestamente non rimpiango la scelta di essermene andato”.
Quando è avvenuto il trasferimento a Bergamo? E che ci dici della tua vita lavorativa?
“Nel 2000, in compagnia di mia moglie mi sono trasferito al Nord e oggi sono Sottoufficiale dell’Aeronautica, presso l’Aeroporto Militare di Ghedi. Con gli anni, la carriera nell’esercito ha chiaramente preso il sopravvento rispetto al calcio, ma il fatto di essere stato adottato da Bergamo e dalla Bergamasca va ricondotto al mio matrimonio, dato che ho sposato una bergamasca, originaria di Ponte San Pietro. Ci siamo sposati nel ’95, ma solo nel 2000, anche a seguito di determinate riflessioni, abbiamo deciso di raggiungere la terra d’origine di mia moglie e così trasferire le mie mansioni in quel di Ghedi. In precedenza, avevo svolto il mio corso da Sottoufficiale a Caserta e, come primo incarico, ero stato assunto presso l’aeroporto di Guidonia. Il calcio, dopo una vita trascorsa a Tor Lupara, diventava un passatempo e ho finito per dilettarmi con i tornei, di calcio a 7 e calcio a 5. Sopraggiunse intanto anche un grave incidente al ginocchio e dopo un’operazione al menisco decisi di rimettermi in gioco, prima all’oratorio di Bonate Sopra, su invito del cugino di mia moglie, e poi alla Piana Botta, a Sotto il Monte, dove vinsi un campionato a 7. Fu decisivo l’incontro con quello che diventò l’allenatore di allora, un romano come me, e fu un’esperienza entusiasmante, per quanto condizionata dai guai al ginocchio. Da lì, il passaggio alla carriera di allenatore a Brembate Sopra”.
E qui forse comincia la fase più recente, e conosciuta, della tua carriera. Meglio allenare i bambini o gli adulti?
“Non faccio particolari preferenze, anche se col tempo ho deciso di alzare il livello di sfida, prediligendo le prime squadre o settori giovanili più strutturati. L’importante, soprattutto, è l’aver capito che non si può mettere in pratica, per grandi e piccini, lo stesso tipo di calcio e devo riconoscere che in avvio gli errori sono stati tanti. Tutto partì da Brembate Sopra e dalla proposta che mi fece un mio carissimo amico, nel 2005. Mi chiese di seguire una squadra di Pulcini, che avrei poi avuto modo di condurre fino agli Allievi. Decisivi, in questo senso, i tre tipi di corso, organizzati dall’Atalanta, che mi convinsi a frequentare: ho capito, soprattutto, che ciascuna fascia d’età vuole le sue metodologie. Quando quella squadra raggiunse la categoria Allievi, mi fu prospettata un’altra sfida, quella di allenare la Juniores del Brembate Sopra. Era una squadra molto forte, dalle alte aspettative, puntualmente tradotte in titoli e soddisfazioni. Abbiamo vinto il campionato provinciale, ripetendoci poi con la vittoria nella fase finale e abbiamo chiuso in bellezza con il Trofeo Bonacina. Il capitolo riguardante le prime squadre è cominciato sempre a Brembate, subentrando a stagione in corso a Luca Rottoli. La situazione era delicata, dato che navigavamo in cattive acque nel campionato di Prima categoria, ma siamo riusciti a fare quadrato incamerando una salvezza tanto sofferta quanto meritata. Le prospettive sulla mia carriera sono diventati più chiare una volta conseguito il patentino di allenatore, ma anche grazie a un ruolo più complesso quale quello di responsabile del settore giovanile. E poi è arrivata la chiamata dell’Atletic Almenno, che mi prospettava un incarico sui Giovanissimi Regionali”.
Abbiamo avuto modo di conoscerti proprio nelle due Almenno del pallone. Possiamo pensare che la gavetta sia stata il tuo punto forte?
“Avrò tanti difetti, ma non mi si può certo imputare di non essere umile. Penso ad esempio a quella parentesi nei Giovanissimi dell’Atletic Almenno: c’erano evidenti limiti tecnici nella squadra, ma ci salvammo egregiamente, tanto da sfiorare i playoff, in un contesto gravato da delicate trasferte, nel Lecchese e nel Milanese. Ho imparato il peso specifico delle qualifiche che uno è tenuto a raggiungere per professionalizzare il proprio lavoro e in quest’ottica mi sono mosso, per raggiungere prima il patentino da dilettante, nel 2012, e poi il patentino Uefa C, nel 2015. Dopo i Giovanissimi mi è stata affidata la panchina della Juniores e chiudemmo a pari merito con la Lemine, che pure la spuntò grazie agli scontri diretti. C’erano tutti i presupposti per fare ancora meglio l’anno successivo, ma nel frattempo era arrivata la chiamata della prima squadra dell’Atletic Almenno. Subentrai a Burini, centrando l’obiettivo-salvezza. L’anno dopo ci furono i playoff, ma al primo turno perdemmo contro il Calusco. Infine, al terzo anno di permanenza, andammo a bersaglio. Il San Giovanni Bianco dominò in lungo e in largo, ma grazie alla forbice di punti ci assicurammo, da secondi, l’approdo diretto al terzo turno di playoff e dopo tutta la trafila conquistammo la matematica certezza per il ripescaggio in Prima. Il 90% di quella formazione fu mantenuto, nonostante le ovvie insidie legate al salto di categoria, ma grazie al successo nel ritorno dei playout con l’Excelsior guadagnammo la salvezza, frutto anzitutto di un grande gruppo e di un grande lavoro improntato sull’umiltà”.
E poi c’è l’apice fin qui raggiunto dalla tua carriera, con la chiamata del Lemine Almenno. C’è qualche rimpianto per l’esonero che occorse?
“Anzitutto la chiamata di quel sodalizio, sorto da poche settimane a seguito di fusione, mi galvanizzò tantissimo e, se possibile, l’improvvisa proposta arrivatami da Sergio Ferrari e Marino Pellegrinelli mi convinse ad accettare senza esitazioni. Gli accordi, almeno all’inizio, riguardavano la panchina della Juniores, ma dopo appena una settimana i presidenti mi chiamarono per la guida della prima squadra, in Promozione. Era una proposta che non si poteva rifiutare e in effetti mi trovai da dio, anche se il perché e le modalità che hanno dato il là all’esonero restano ancora oggi abbastanza misteriose. Fu un esonero senza preavviso e ne uscii abbastanza frastornato. L’anno scorso è arrivata la chiamata del Loreto, in Prima categoria: le premesse erano interessanti, ma le prospettive, senza Pilenga e Pelizzoli, non lo erano. Son venute meno le colonne portanti di allora e non me la son sentita di continuare”.
Nell’attesa della prossima chiamata, che calcio ci aspetta con il Covid-19 di mezzo? Pensi che con il vaccino e i dovuti controlli si potrà tornare in campo?
“I controlli non sono stati un problema. Credo che aziende, scuole, società dilettantistiche abbiano fatto il loro fino in fondo, rispettando appieno le consegne. Il problema, semmai, nasce nel momento in cui – ed è il caso degli asintomatici – l’assenza di febbre non scongiura la positività da Covid-19. La verità è che i controlli non sono uniformati, cosicché ognuno faccia da sé, offrendo mille interpretazioni di protocolli, decreti e regolamenti. Ho visto alcune partite, alcuni allenamenti e ho visto società prendere molto sul serio il problema. Per come la vedo io, allora, il problema non è lo sport, ma va cercato altrove. Lo sport non crea problemi, anzi diventa un motivo di svago, nel marasma di altri problemi, legati alla malattia, al lavoro, a tutto ciò cui questa pandemia si è accompagnata in questi mesi. Per evitare il contagio, diventa fondamentale evitare gli assembramenti. Gli assembramenti si sono visti a scuola, quando le mamme aspettano i loro figli all’uscita. E si sono visti con i trasporti, mai potenziati e sprovvisti dei dovuti accorgimenti. Ma non si può dire la stessa cosa nel calcio, che mi è parso più vittima che causa delle tante, troppe, interpretazioni”.
Nikolas Semperboni