“Non accanimento, ma annientamento”. Tutto il dolore di un ex capo tifoso che ad Atalanta-Inter non se l’è potuta cucire ago & filo nel sottopelle perché sottoposto a una serie trentennale di Daspo in continuazione. Xavier Jacobelli porta alla luce sul proprio canale Facebook una lettera al Corriere dello Sport, diretto da Ivan Zazzaroni, ma presumibilmente spedita a più testate. Ne è autore Claudio Galimberti, noto come Bòcia, leader spirituale ma anche organizzativo della Curva Nord dello stadio di Bergamo. Oltre a lamentare di essere l’ultimo reietto del calcio, l’ultrà bergamasco protesta di essere stato lasciato anche privo dei mezzi di sostentamento dopo la chiusura del barcone-ristorante a Marina di Marotta sull’Adriatico pesarese, luogo del suo “esilio”. Ne riportiamo integralmente la missiva.
 
Caro Direttore,
questo non è più accanimento, io lo chiamo annientamento. Ho raggiunto i trent’anni di daspo e, pur vivendo lontano dalla mia città da ben sette anni (ormai sono quasi otto), questo non è servito perchè si capisse di lasciarmi vivere la mia vita! Anche se sono lontano, patisco la stessa, troppa repressione e l’umiliazione di non avere l’indipendenza, di essere autonomo nel lavoro sta prendendo il sopravvento. Una patente negata da già ben otto anni per mancanza di requisiti morali. Un’attività lavorativa alla quale prestavo la mia opera e grazie alla quale, in sei anni sono rinato, chiusa per farmi ancora del male. Me la stavo godendo troppo, secondo loro… Nel frattempo, in questi anni un arresto assurdo a Terni e due processi inventati, fortunatamente e giustamente chiusi con l’assoluzione piena a Bergamo. Troppa invidia, troppa vigliaccheria, troppa slealtà. E sì che lo sbirro Mazinga, al secolo Elio Carminati, mi regalò il suo libro con tanto di dedica: quanto mancano questi uomini. Non finisce mai questa storia, non ha scadenza. Finirà, ne sono pienamente convinto, quando io sarò sfinito in età anziana. Mia sorella Paola, 64 anni, a mia insaputa è andata in Questura più volte nel corso di questi ultimi anni. Colloqui con il questore in persona al, quale, mia sorella Paola chiedeva uno sguardo lungo, uno spiraglio di luce per suo fratello, perché a tutto c’è un limite, con la paura di perdere forza, scoraggiarsi di fronte a un percorso solo repressivo: “A mio fratello non è mai stata data una possibilità”. Non è il questore il problema, è il contorno che non va bene, con un giornale che, come disse Don Sergio Colombo, nei miei confronti è stato poco cristiano, ha sempre buttato fango sulla mia persona, sul mio cognome, screditandomi e annientandomi senza se e senza ma e, di conseguenza, anche su tutta la mia famiglia.
 
Intanto, il film “A guardia di una fede” che racconta la mia storia e la storia della Curva Nord atalantina, ha partecipato al Torino Film Festival e merita di essere visto. Non tanto per me, ma per il regista bergamasco Andrea Zambelli che, con un grande lavoro, ha letteralmente conquistando l’interesse e la curiosità del tifo europeo, registrando pienoni in molte sale cinematografiche. Io amo l’Atalanta, ho vissuto e creduto che con lei crescessi anch’io, crescessero il nostro popolo, il senso di appartenenza, la passione, il cuore. L’Atalanta nel bene e nel male. Mio padre, storico romantico di quell’Atalanta che vinse il titolo di campione d’Italia Primavera nel ’48-’49, allo stadio Flaminio, contro la Lazio, allenatore il cavalier Ciatto, con TItta Rota, mio padre e gli altri nove, tutti bergamaschi in campo. Mia madre che, in fin di vita mi disse, con voce bassa e faticosa: “Claudio, ti ho messo ago e filo nel cassetto del comodino perché, se io non ce la faccio, lo scudetto sulla maglia te lo cuce la zia Rosanna”. Io penso siano le persone a fare la qualità, la differenza: nel lavoro, nella vita, nella famiglia, in qualsiasi campo, Proverò anch’io a fare la differenza e continuerò a mettermi al servizio della mia Atalanta, della Curva, della nostra storia. So bene che andrò incontro molto probabilmente a un prezzo alto da pagare. So anche bene, però, che questo atto d’amore è l’unica pace interiore capace di darmi una grande forza, per resistere e non affliggermi fino alla depressione e alla morte. Voglio lottare, non morire e, se Dio vorrà, smuovere uomini, coscienze di tante e troppe persone che pensano solo a stare sul carro dei più forti e non capiscono come la libertà rimanga la più grande partita da vincere. L’Atalanta è arrivata dov’è arrivata non per caso, ma grazie all’anima, al cuore e alla sensibilità di un popolo nei suoi confronti.
 
Nell’anno dello scudetto – perché io ci credo, eccome – questo è l’anno giusto di un percorso societario straordinario, guidato da un tecnico unico che fa la differenza. Quella differenza che, vent’anni fa, ha reso grandi anche noi della Curva nel credere alla salvezza con Delio Rossi, malgrado la squadra fosse scarsa e alla fine retrocesse in Serie B. Oggi più che bisogna mai stare vicino alla squadra, senza dimenticare da dove veniamo e che cosa eravamo, senza essere distruttivi dopo un risultato negativo. Penso a Ivan, Pelé e Giorgio, i miei più grandi amici di sempre che non sono più fianco a me, a noi. Mi ripeto sempre: che cosa potevo fare di più, che cosa potevamo fare di più per loro. Dovevamo capirli. Oggi capite anche me, basta ipocrisia.