Il vantaggio dell’Atalanta in casa del Manchester City è durato sei minuti, che sono trecentosessanta secondi, davvero pochini se si considera una vita, la mia ad esempio, che ho già 42 anni e sono stato a vedere la partita in redazione, o quella dei ragazzi bergamaschi che erano sulle tribune dell’Etihad Stadium, o, ancora, dei tanti al Blu Puro davanti al maxischermo con la maglietta nerazzurra, ubriachi e felici per essere arrivati dopo più di un secolo nel paradiso del pallone. Ieri sera è stato il sogno quando diventa realtà: la nostra piccola guerriera, la meravigliosa e scapigliata Dea, a giocarsela in casa della squadra più forte d’Europa, la più ricca, quella con l’allenatore migliore, Guardiola, e che schiera uno dei cinque calciatori che potrebbero vincerla, o quantomeno pareggiarla, anche giocando in Champions insieme a dieci zoppi. Parlo del supersonico Sterling, che però va in campo con la stessa casacchina che vestono parecchi altri attuali santi del dio del football. In quell’attimo, dal gol di Malinovskyi al pari di Aguero, dal 28’ al 34’ del primo tempo, abbiamo vissuto il momento più alto della centenaria storia nerazzurra, con il suo straordinario valore simbolico, quello spesso assaporato nei nostri anni gasperiniani, ovvero che le favole possono succedere, a patto di metterci coraggio e passione.
L’ho già scritto, lo rifaccio ora, credo che il pallone nei suoi momenti migliori riesca a diventare una perfetta metafora della nostra esistenza. Così, dal rigore conquistato da Ilicic, per sei minuti il nostro mondo si è capovolto, noi, poveri, spaventati, guerrieri di questa pazza pazza Italia di tasse, abbiamo sentito nel profondo dell’anima che non è poi così vero quello che ci raccontano, ossia che arriva primo quello che ne ha di più nel portafoglio. A volte può accadere che basti il cuore.
Proprio come l’Atalanta e il suo popolo, tutta Bergamo ha chiuso gli occhi e ha iniziato a sognare l’impossibile. Monica ha smesso di pensare ai conti della cooperativa Bergamo & Sport e si è messa a organizzare il suo canile extralusso in grado di ospitare i centinaia di randagi che vivono sulle nostre strade, Manuel si è scordato di passare i suoi giorni a fare lo schiavo-stagista e ha cominciato a guardare su internet le sedie da comperare per il ristorantino che vorrebbe aprire nel centro di Londra, Costanza si è dimenticata dei due lavori che fa per mantenere i suoi figli e si è immaginata sul lettino di una spiaggia in Costarica a prendere il sole con un bel mojito in mano e un giovane e aitante mulatto a massaggiarle la schiena, Stefano ha mandato il messaggio alla figona a cui da anni regala il mi piace giornaliero trovando all’improvviso il coraggio di chiederle di uscire, Fall si è visto fuori dalla Questura con in tasca il permesso di soggiorno, Claudio a tirare bordate dal limite dell’area con le ginocchia solide e scattanti che aveva dieci anni fa.
E io, che sto scrivendo questo pezzo, ma che ormai in ufficio faccio a tempo pieno il giovane (e modesto) grafico, con la testa ero a Foppolo, a brindare con una coppa di champagne leggendo e rileggendo l’ultima pagina del mio capolavoro da Premio Nobel, quello che da un anno a questa parte ha sempre e solo il titolo, “Un secolo infinito”.
Poi il City ha pareggiato, quindi ne ha fatti altri quattro, riportandoci bruscamente sulla terra. Ma Gasperini, Gollini, Freuler, De Roon e gli altri nostri eroi nerazzurri vanno ringraziati perché ancora una volta sono andati oltre la nostra immaginazione. Per trecentosessanta secondi, pochini, ma anche immensi.
Matteo Bonfanti