di Simone Fornoni
Avvertenza ai lettori: dai giornalisti è meglio stare a debita distanza. Sono la categoria, pardon la corporazione, più suscettibile della terra. Soltanto tra di loro, per dirne una, gli scazzi sono talmente pesanti che a volte si mandano vicendevolmente davanti al Consiglio di disciplina dell’Ordine, che spesso li censura o li sospende, magari perché c’è chi si sente oltraggiato dal collega sgradito. Pessimi soggetti. Se critichi quello che scrivono o osi irriderli, peggio ancora in pubblico, sono guai, dalle risposte inverminate sui social alle comparsate in caserma riservate a qualche addetto ai lavori dall’ego in erezione da sgonfiare. Capita a tutti di averlo così, noi però ne pretendiamo l’esclusiva. Usiamo il tesserino come lasciapassare, dall’ingresso gratis ai musei alla pezza giustificativa per circolare anche in pieno lockdown, pure senza bisogno dell’autocertificazione, perché l’informazione, nel Paese che legge meno al mondo, è una cosa terribilmente seria e imprescindibile. In pratica lo riconosce a denti stretti anche la recente circolare prefettizia che ne fa un corpo privilegiato di una società in libertà vigilata da non si sa più quanti decreti di Palazzo Chigi.
Premessa necessaria dopo la quale si passa all’io narrante, la prima persona singolare indeclinabile, non una mia abitudine, che però stavolta mi tocca avendone una grossa come un quartiere, anzi due, da raccontare. Da unico passante, tolta un’allegra coppietta col cane appena mezzo isolato fuori dalla redazione di Bergamo & Sport, una delle testate per cui fingo appassionatamente di lavorare sul serio, di una Bergamo deserta, quella del coprifuoco. Oltre i due occasionali, di ritorno dalla seratona Champions in solitario, davanti al maxischermo della redazione, col trionfo dell’Atalanta in casa dell’Ajax, il lavoro per il free press domenicale contro la Fiorentina e due ghignate sincere sulle magnifiche sorti e regressive dell’Inter contiana, lo stradino tra via Previtali e via Baschenis con la sparafoglie tra le mani, unica fonte di rumore nel silenzio tombale di una città che pare un cimitero con le scrausissime luminarie natalizie appese. Il maledetto Covid deve avere alimentato un’atmosfera da guardie e ladri che nemmeno nel Far West, se è vero che una pattuglia della Fidelitas, due uomini a bordo, mi sgama all’angolo con via San Giorgio invertendo la marcia e mettendosi minacciosamente a cavalcioni sul marciapiedi.
Sono un tipo freddo, almeno finché non mi si tocca nei sentimenti o su cagate tipo l’onore e la dignità, personale e professionale, da quarantaquattrenne sradicato da famiglia, casa, amici, Beatrici che rifiutano le mie attenzioni da Dante di noialtri, amici e committenti a raffica. Non è che due tizi a caso, evidentemente presissimi dalle loro regolari e retribuite incombenze, per di più notturne, visto che la mezzanotte è passata da mo’, abbiano il potere di impressionarmi o addirittura di spaventarmi. Non me ne frega una mazza: io abito a Boccaleone, sono smacchinato, piove, ho dovuto lasciare la bici nella rimessa e devo rincasare. Di balle e rogne non ho proprio alcuna voglia. Incrocio la pattuglia, appartenente a quel corpo di vigilanza privato che diritti sui cittadini non ne ha proprio nemmeno l’ombra, nel senso che non sono un’autorità pubblica e non possono neppure chiedere i documenti a chicchessia, e mi cavo gli occhiali con gesto teatrale, come a squadrare le due ombre sedute al calduccio nella Panda penultimo modello, roba che se non sai pigiare a tavoletta non rincorri manco un mutilato in bicicletta. Come a dire: non so chi siate e cosa vogliate, ma io vado per la mia strada, mica devo rendere conto a voi che di mestiere fate quelli che lasciano i bigliettini sotto le serrande dei negozi salvo tirare fuori il ferro in caso di tentativo di scasso.
Io reggo il mio bravo ombrello rossoblù Polisportiva Oratorio di Stezzano, edizione limitata, regalatomi dal club durante due cene di Natale fa, anzi la cena di Natale due anni fa perché quest’anno mi sa che nisba, non si può. Li seguo abbastanza spesso come cronista, non mi occupo solo di Atalanta, Blu Basket Treviglio, Bergamo Basket 2014 di passata o varie ed eventuali. Potermi fare scudo col simbolo di una realtà del calcio provinciale, campanilista ferreo e sordo alla globalizzazione quale mi picco di essere, m’inorgoglisce. E significa sempre la stessa cosa: sono uno che lavora o quantomeno s’impegna, dal quartiere San Paolo che sta tra via Broseta e via Carducci devo scendere oltre due chilometri a sud, che fastidio vi do? Niente da fare, questi qui mica desistono. E dire che ho incrociato già la Polizia Locale e quella di Stato: nessuna delle due mi ha cagato di striscio. Questi no, insistono, sfrecciando da via Carnovali a via Gavazzeni, quella lunga, quella che passa sopra la ferrovia riportandomi a casina, la casina dove la sciura Luisa, la zia della Luciana Rota, steward al Gewiss Stadium e non solo, una che sgama il vip di turno facendoci l’intervista-video a tempi di record, mi cucina primi e secondi che fanno un baffo a Masterchef.
Si piazzano di traverso dal benzinaio dopo la Casa del Giovane. Uno scende. Decido di cambiare marciapiede, francamente adesso hanno rotto il cazzo. Come si permettono, qual è lo scopo del loro pedinamento ferreo, che nemmeno Starsky e Hutch o i Chips di televisiva memoria per noi figli degli anni settanta-ottanta? Quale rapinatore si metterebbe mai a scassinare inferriate e vetrine, quando non si sente volare una foglia e il minimo rumore, eccetto quello dello stradino pagato per spararle via, attirerebbe l’attenzione anche dei pensionati con l’apparecchio acustico? Sorpresona: uno scende e, fingendo di piazzare il suo bigliettino o, chissà, di difendere la trincea di non so quale attività privata, probabilmente una che paga la Fidelitas per la sorveglianza, attraversa la strada per darmi un’occhiata. Sai, uno in piumino, coppola, mascherina verde e pantaloni neri di velluto a coste strettine: un brutto ceffo, capace chissà di cosa. Poco importa che sia incensurato e abbia preso tre multe in vita mia: sono un brutto ceffo, per di più con la barba sale e pepe che mi spunta dal mento. La Dea ha vinto qualificandosi ancora agli ottavi e la cosa, da bergamasco e umile scribacchino, mi soddisfa, perché significa gioia per un popolo falciato dal male tra inverno e primavera, ma non mi si chieda per questo di passare sopra ogni avversità. Sono juventino, ma la Juve è passata il giorno prima: euforia finita, morta e sepolta.
Da lontano, mi tana, il tipetto, a distanza di sicurezza. Non gli scoppio a ridere in faccia per la pantomima, anche perché fa freddino e i nervi facciali mi si potrebbero contrarre, e tutto sommato perché rispetto il suo lavoro infame, più infame del mio. Un mestiere duro, che ha appena iniziato Silvia Casanova, amica di Bergamo & Sport cui ha raccontato di come Josip Ilicic per far felice suo figlio gli aveva regalato la maglia al Mapei Stadium dopo il 6-2 al Sassuolo. Non ce la vedo, lei, a fare gli inseguimenti ad personam, con fare intimidatorio. Il fidelitassino, che deve averne abbastanza di uno che non reagisce se non togliendosi i RayBan per squadrarlo senza arrestare il passo di un millimetro, se ne torna in auto, al calduccio, davanti al distributore, evitandomi. Rispetto chi si fa il mazzo, ma ha fatto bene: sono un giornalista, sono pieno di me come un bignè allo zabaione o una zeppolina alla crema di agrumi, sono incazzoso e conscio dei miei diritti fino alla paranoia, una mossa in più e ora ci sarebbero un paio di denunce in più. Prima o poi il bonus pazienza scade come lo yogurt lasciato troppo a lungo in frigo. Vabbè che a Natale siamo tutti più buoni. I giornalisti, col loro malvezzo di circolare mentre l’uomo della strada non può, se non certificando di avere questioni di vita e di morte per farlo, abitualmente non lo sono. Io meno di tutti. Sarà che da decenni inseguo chimere e di essere inseguito da due sconosciuti non mi va. Guardie loro, ladro chi?