Io e Cesare abbiamo avuto solo un momento vicini, un’estate in cui ci siamo sfiorati. Per me era l’agosto della prima liceo, rimandato in matematica, col quattro secco messo in rosso sulla mia pagella dalla professoressa Ponziani, una che a Lecco è diventata strafamosa per il migliaio di poveri cristiani che è riuscita a bocciare in carriera sia a giugno che a settembre.
C’è che nell’ormai lontano 1992 io a casa non riuscivo a studiare. Del resto il cortile era lì, appena sotto, e a quindici anni l’idea è quella di giocare a nascondino, seguendo dove si va a cacciare la più bellina del quartiere, magari tentando di darle un bacio. Mi toccavo, tanto tanto, come tutti i miei coetanei. Sostanzialmente la nostra vita era divisa tra i giorni in cui ci ammazzavamo di seghe, ognuno nel proprio appartamento, scambiandoci però le cassette vhs che meritavano, quelli dove ci accoppavamo con partite di calcio strada della durata di almeno otto ore, che spesso finivano in rissa perché non c’era un arbitro a dire la sua quando si verificavano degli episodi dubbi, e le giornate dedicate al nascondino soft porno, ma non perché quelle della nostra età ce la facessero vedere, manco per sogno, solo per i viaggi in testa che ci facevamo quando giocavano con noi.
Così fino a quell’estate, l’ultima da bimbetto perché non avevo ancora fatto l’amore, la sola cosa che ti fa diventare grande, perché da lì in poi si è in due, coi casini che comporta, felici per carità, ma comunque casini.
Bene, io a Lecco, all’epoca, l’ho già detto, non riuscivo a mettermi sul libro di matematica, così mia mamma mi aveva vivamente consigliato di andare a Sant’Agata Bolognese, nella casa dei genitori di mia nonna Pina, Vittorio e Maria, nei campi e nel nulla, senza nessuno che venisse a suonarmi il campanello per scendere in strada. Avevo preso il treno ed ero andato in quell’immensa dimora, nella stanza di Cesare, il nipotino, che all’epoca aveva dodici anni e che non c’era, credo fosse al mare con suo fratello e con sua mamma, la Carla, una donna meravigliosa, che ho sentito vicinissima qualche anno fa in uno dei miei momenti difficili.
Torno all’estate del 1992. Ovviamente anche lì, disperso nella pianura padana, non aprivo un libro. Passavo il tempo a curiosare, di mattina prendevo la strada dei fossi col pacchetto di Ms e andavo a fumare e a pensare alla mia bella, che stava a Lecco ed era cicciosissima, ma io me la immaginavo la più figa del pianeta, che massimo massimo mi aveva baciato senza la lingua fuori dalla chiesa e io invece me la sognavo biotta e porca in uno di quei motel della Bulgaria, dove allora si giravano i porno. Sfinito di tortellini e di polpettine coi piselli, nel pomeriggio cazzeggiavo tra le cose di Cesare, tra i suoi dischi, che lui era piccolo piccolo, ma forse aveva già scelto la sua strada. Sul giradischi mettevo ogni volta “Vado al massimo” di Vasco Rossi, dove c’era Canzone, che stava sul lato b e che mi metteva un sacco di brividini addosso.
Quell’estate, a fine agosto, sono tornato a Lecco. A settembre ho fatto l’esame, ho preso due, la già citata professoressa, appunto la Ponziani, ha tentato di bocciarmi, ma non ce l’ha fatta, riuscendoci solo l’anno seguente. Io ho iniziato a suonare la chitarra, va detto sempre male, una chitarrina bella bella, stupenda, un regalo di mio zio Sandro, che a cantare è fighissimissimo, ancora meglio di Celentano quando attacca con “A mezzanotte sai…”. Comunque, se mi sono messo tra le note è perché volevo fare Canzone alla mia fidanzata dell’epoca, che non era più la cicciosissima, ma una ragazza bellissima, con le gambe lunghe e con gli occhi azzurri, celesti, che sembravano fatti della stessa materia del mare.
Un paio d’anni dopo facevo parte di un gruppo, i Virgo. Ci ammazzavamo di vodka, sparando minchiate sulla vita e sui suoi perché mentre suonavamo fino allo sfinimento Knockin’ On Heaven’s Door in una stanzetta dell’oratorio di Galbiate. Così, dai racconti famigliari, più o meno nello stesso periodo, faceva anche Cesare, che, però, non si accoppava di super alcolici, o forse sì, ma che, diversamente da me, si era messo seriamente con la sua voce, con i suoi sogni e con un sacco di strumenti. “Dovreste conoscervi”, diceva mia mamma. Ma non c’è successo mai perché poi Cesare è diventato subito famosissimo e impegnatissimo.
Ora chi sta leggendo questo raccontino penserà “ok ok, bello ricordare”, e, subito dopo “ma anche chissene…”, chiudendo il ragionamento con una domanda “ma Matteo sto giro dove minchia vuole andare a parare?”.
Lo spiego subito. Ieri ho letto un racconto di Cesare, che come me in questo momento ha un libro nelle librerie. Cesare parlava della sua amicizia con Ballo, il suo socio di una vita, descrivendolo in modo bellissimo, con una smisurata dolcezza. Leggerlo era meraviglioso, leggero e soffice, col cuore dentro, come il cornetto della Algida, insomma metteva addosso una decina di sentimenti buoni buonissimi. Ovviamente con le dovute proporzioni, che il famoso lontano parente è un genio, io una mezzasega, pure io, quando scrivo, sono tanto così, che mi piace ricordare su un foglio chi mi ha fatto stare bene bene piuttosto che perdere del tempo per stare a parlare di chi mi vuole male.
E mi sono chiesto “ma se questo modo di vedere il mondo dipendesse un pochino anche da quella canzone, la settima traccia di Vado al Massimo, che si chiama Canzone e ha già tutto dentro lì, l’infinito e smisurato amore per chi ti è accanto?”.
Matteo Bonfanti
Nella foto Cesare, mia mamma e le mie zie, che sono cugini