C’è che sto vivendo questo lutto, in morte della mia Pandona Aranciona, la mia bella, una delle mie cinque migliori amiche, la maghina che ogni volta mi ha fatto inseguire il vento, Bologna che è una favola perché c’è ancora la mia nonna, la Pina, a farmi di sera le lasagne, poi la poesia del Piemonte, le morte stagioni sull’Adda, comunque andare, sulle Mura o a Petosino, e persino di tanto in tanto il resto del giorno sul mio lago, quello di Lecco, l’angolo meraviglioso, povero e maldestro, dove sono nato e dove ho bisogno a volte di tornare.
C’è che non sono uno che s’innamora delle cose, mai di una casa, neppure di un mobile, tutti comperati all’Ikea dove c’è gran confusione, persino le mie due chitarre non sono cosa mia, una è il regalo di mio zio Sandro per i miei tredici anni, l’altra di Ermallo e di Greta per i miei quaranta. Mi vesto sempre uguale, che da straccione quale ero da ragazzino ho il terrore delle commesse che mi fanno spendere facendomi pesare troppo sullo stipendio dei miei, e in testa, pure se vado da Zara, ho immancabilmente il pensiero fisso dei bambini africani che non magnano e cento euro di jeans li sento tali e quali a un delitto verso di loro perché dovrei invece investirli nel riso quotidiano che dovremmo sparargli giù coi Concorde visto che a inizio del secolo scorso gli abbiamo rubato il petrolio e un botto di pietre preziose.
Eppure con la Pandoska ho sempre avuto questo incredibile amore. E’ dal 2007 che ce l’ho più o meno in mano. Era della Vale, mia mamma, come ogni vettura che mi è toccata in sorte, in ordine, il 127 azzurro metalizzato già di mio nonno Cesarino, l’Opel Corsa grigio topo a metà con mia sorella Chiara, il Puntone Yellow privo di tergicristalli. Sostanzialmente io le fottevo il mezzo, lei, che è una madre buonissima, si adeguava e comperava il carro che avrei avuto successivamente, una volta morta la mia maghina dell’epoca che per centinaia di migliaia di chilometri era stata sua tenendola come un gioiello.
Va beh, ci sarebbe da scriverci un libro, ma questo è un post, sicché la faccio breve: negli ultimi sei mesi per la Pandona ho speso qualcosa come cinquemila seicento settanta sette euro. Pensavo fosse finita, oggi invece 132 di mance, caffè, briosche, aperitivi, accendini, fazzoletti e tovagliette, perché si accendeva solo a spinta e il più delle volte tra chi mi aiutava c’era sempre di mezzo un extracomunitario tenerissimo e disperato. Con il mio stipendio è un lusso eccessivo. Quindi domani la uccido. La rottamo e prendo il treno per Valgreghentino per portare via a mia madre la sua creatura, la Roscia, che, con lei a Bologna, sta parcheggiata in garage. Mi piange il cuore, ma è il momento. Addio, Pandoska, amore mio, non ti dimenticherò mai.
C’è che non sono uno che s’innamora delle cose, mai di una casa, neppure di un mobile, tutti comperati all’Ikea dove c’è gran confusione, persino le mie due chitarre non sono cosa mia, una è il regalo di mio zio Sandro per i miei tredici anni, l’altra di Ermallo e di Greta per i miei quaranta. Mi vesto sempre uguale, che da straccione quale ero da ragazzino ho il terrore delle commesse che mi fanno spendere facendomi pesare troppo sullo stipendio dei miei, e in testa, pure se vado da Zara, ho immancabilmente il pensiero fisso dei bambini africani che non magnano e cento euro di jeans li sento tali e quali a un delitto verso di loro perché dovrei invece investirli nel riso quotidiano che dovremmo sparargli giù coi Concorde visto che a inizio del secolo scorso gli abbiamo rubato il petrolio e un botto di pietre preziose.
Eppure con la Pandoska ho sempre avuto questo incredibile amore. E’ dal 2007 che ce l’ho più o meno in mano. Era della Vale, mia mamma, come ogni vettura che mi è toccata in sorte, in ordine, il 127 azzurro metalizzato già di mio nonno Cesarino, l’Opel Corsa grigio topo a metà con mia sorella Chiara, il Puntone Yellow privo di tergicristalli. Sostanzialmente io le fottevo il mezzo, lei, che è una madre buonissima, si adeguava e comperava il carro che avrei avuto successivamente, una volta morta la mia maghina dell’epoca che per centinaia di migliaia di chilometri era stata sua tenendola come un gioiello.
Va beh, ci sarebbe da scriverci un libro, ma questo è un post, sicché la faccio breve: negli ultimi sei mesi per la Pandona ho speso qualcosa come cinquemila seicento settanta sette euro. Pensavo fosse finita, oggi invece 132 di mance, caffè, briosche, aperitivi, accendini, fazzoletti e tovagliette, perché si accendeva solo a spinta e il più delle volte tra chi mi aiutava c’era sempre di mezzo un extracomunitario tenerissimo e disperato. Con il mio stipendio è un lusso eccessivo. Quindi domani la uccido. La rottamo e prendo il treno per Valgreghentino per portare via a mia madre la sua creatura, la Roscia, che, con lei a Bologna, sta parcheggiata in garage. Mi piange il cuore, ma è il momento. Addio, Pandoska, amore mio, non ti dimenticherò mai.
Matteo Bonfanti