di Marco Bonfanti
E’ finito domenica il nostro viaggio nella serie D, è finito come prevedibile e previsto, con una partita inutile, consumata in un pareggio, come si conviene alla fine. Ma è finito anche in allegria, che ce ne vuole, e con una convinzione dolce e netta: è possibile o doveroso, vivere il calcio come pretesto. Pretesto che è qui una bella parola, che sta a significare prima del testo, prima della storia, prima dell’avvenimento, ma anche intorno ad esso, prendendo e lasciando, lasciandosi cullare come sopra un’onda leggera. Prima di tutto pretesto per ritrovarsi, dopo una settimana di vite diverse, e diverse rincorse e interessi distanti, o vicini solo di pensiero e sentimento. Ritrovarsi allora come festa, come un reintegrarsi interessante, come pezzo di cammino insieme, dopo strade separate, salite e discese in altri ambiti. Pretesto di parole quindi, perché il ritrovarsi è prima di tutto parola, la parola che unisce, riporta a un unico ciò che era filo diverso e ne fa una trama. Se penso a questo viaggio, ecco penso proprio ad una cascata di parole. Prima di tutto le parole di noi, quel che abbiamo fatto, tra doveri parentali, incombenze professionali e sguardi e svolte continue. Ma noi siamo mondo, e allora anche tante parole che interrogano il presente, che hanno visto in questo viaggio cambiare presidenti, indagare (ma non è una novità) politici, diseredare ex grandi, far cascate di roboanti promesse. Noi lì a usare parole per capire, a concordare o a dissentire, a collocarci ancora, ad avere posto. E perché, proprio perché, ogni collocazione viene da lontano e vuole aprire strada per il futuro, ecco allora anche tante parole sul passato, che fanno così della nostra storia una storia, del significato attuale un senso consumato ma stabile. E certo parole anche di calcio. Prima e dopo, ma anche durante la partita. Perché il calcio, nella sua mancanza di continui ritmi frenetici, nelle sue accelerazioni e pause ha questo di bello: lasciare fluire il commento, suscitare uno sguardo forte, a volte, ma anche, altre volte, uno sguardo calmo e distante.
Poi, ancora, pretesto per vedere posti, nelle periferie misconosciute delle grandi città e delle grandi opere. Vedere una santa per caso o una santa solo dichiarata, una chiesa senza pretese e senza opere d’arte, un’architettura minuta, che segna gli anni e ce li restituisce, i sessanta i settanta e fino a qui, in quel sovrapporsi di piani diversi che è il nostro paese. Pretesto per mangiare in allegria, dentro altre cascate di parole che accompagnano il cibo e lo rendono più gustoso e più vero. Scoprire ristoranti, trattorie, osterie e piatti tipici, collocarsi nella tradizione della festa, del convivio e del condividere. Ecco questo è stato il viaggio, e ci tenevo a dirlo, stamattina, come un’urgenza piena. Perché siamo pur sempre tifosi e ci siamo mossi, anche se con tanti altri intenti, per vedere delle partite. E siamo partiti la mattina, abbiamo parlato, abbiamo guardato, abbiamo osservato e abbiamo commentato. Ci siamo seduti in tribuna con molta calma e molta ironia. Bene, se siamo classificabili come tifosi, cosa abbiamo noi a che fare con il tifo inutilmente chiassoso, a volte violento, cioè l’altro tifo che in tutte le serie calcistiche ci tocca di vedere? Domanda poi che contiene una risposta assai semplice: nulla.
Perché poi si viene all’osceno spettacolo di sabato sera, laddove un capo ultrà, di assai dubbia reputazione, decide se si può o meno giocare la finale di Coppa Italia. L’osceno spettacolo di politici, capi, uomini delle istituzioni che non sanno fare nulla, se non demandare a chi non si dovrebbe, una decisione neanche poi tanto difficile. Perché giocare si doveva giocare, almeno per spezzare l’assurdo legame che unisce ciò che succede fuori da uno stadio ed una normalissima partita di pallone. Ma così vanno le cose, le due diverse tipologie di tifosi convivono ignorandosi, ma, è evidente, sono quelli come noi che, di fronte a questi eventi, perdono voglia e passione. Non pare difficile fare una scelta, anche dura, anche decisa, eppure non si fa. Noi restiamo lì con i nostri pretesti. Finché reggono. Restiamo lì a dirci che è solo un gioco. A riempire domeniche di parole. Che chi dovrebbe ascoltare, non ascolta, mai. Ai nostri, se non nobili, perlomeno sani pretesti, ne preferiscono altri. Pretesti che fanno male, ma non solo al calcio, anche a quella partita che chiamiamo vita.