Domenica 2 giugno 1963: Bergamo è in trepidazione, dal Vaticano arrivano minuto dopo minuto notizie poco confortanti: papa Giovanni XXIII sta morendo. Nelle chiese delle parrocchie cittadine e della provincia bergamasca i parroci chiamano i fedeli, in quegli anni ancora numerosi, alla preghiera. A Roma, piazza San Pietro è gremita di popolo che vuole informarsi sulla salute del Papa Buono. E’ la prima volta delle dirette tv. Cineprese e inviati di tutto il mondo sono piazzati davanti al palazzo del Vaticano, è presente anche la tv di stato dell’Unione Sovietica. Mai prima d’ora il mondo intero, cattolico e non, credente o ateo, si interessa della vita terrena di un pontefice. E’ una domenica speciale a Bergamo, uno strano, quasi sacrilego, connubio tra sacro e profano. La “seconda religione ”d’Italia, il calcio, ha un rito storico da celebrare. Per la prima volta nella sua storia l’Atalanta può conquistare un trofeo, secondo solo allo scudetto tricolore, la Coppa Italia. A San Siro, campo neutro, si gioca la finale tra Atalanta e Torino. Il campionato, vinto dall’Inter, è terminato da una settimana con nerazzurri e granata che si sono classificati, a quota 34, all’ottavo posto ex aequo. Eppure i pronostici sono quasi tutti a favore del Toro che annovera, tra gli altri, Bearzot, a fine carriera, Vieri, Rosato, Ferrini, i due prossimi atalantini Hitchens e Danova e lo spagnolo Peirò. La gioventù dorata della città ha come ritrovi chic il Balzer e il Nazionale, ma anche Anselmo, i tifosi della provincia si trovano nei loro bar di paese, anche negli oratori, tutti quanti, organizzano la spedizione nerazzurra. Borghesi e proletari si trasformano in un popolo interclassista per una partita che può essere epocale. C’ un’attesa spasmodica. Nelle redazioni sportive de L’Eco e del Giornale del Popolo (poi Giornale di Bergamo) si sfornano articoli su articoli per preparare l’evento. Domenica 26 maggio l’Atalanta ha concluso il campionato battendo al Comunale il Napoli (2-1 Da Costa, Nielsen e Corelli gli autori dei gol) spedendo la squadra di Pesaola in serie B. Per evitare distrazioni e rischi di vario genere, è il periodo della “dolce vita” e anche una città di provincia non ne è immune, Tentorio decide di spedire la squadra in ritiro a Sarnico. I giocatori non la prendono bene. Una delegazione capitana da Umberto Colombo va a colloquio con l’ingegner Tentorio, vogliono convincerlo a ridurre a tre giorni il ritiro. L’ingegnere li liquida in cinque minuti: “Non se ne parla nemmeno” risponde in dialetto. La delegazione esce a testa bassa dalla sede nerazzurra, in piazza Vittorio Veneto. Sottostante c’è il Moka Efti, bar ritrovo dei giocatori che si consolano con un aperitivo prima di partire per Sarnico. Era un gruppo unito e solidale. Ad esempio Nova e Magistrelli si contendevano una maglia di titolare ma fuori erano amici intimi, facevano gruppo e quando erano insieme trascinavano tutti gli altri al Bar Amadeo, in viale Roma, e lì Nielsen mostrava a tutta la compagnia come un nordico si gustasse la birra: di solito quattro o cinque boccali senza lasciar traccia mentre gli altri al primo boccale erano già brilli. Ogni tanto Colombo snobbava la compagnia perché s’attovagliava al Balzer con la “Bergamo bene”. La ritirata dei nerazzurri era fissata alle ventidue e trenta. I single alloggiavano in un appartamento di via Camozzi, puntuale squillava il telefono, era l’ingegner Tentorio che chiedeva notizie di tutti e guai a chi sgarrava. L’anno prima era scoppiato uno scandalo: Humberto Maschio aveva una relazione con una bella telefonista della Stipel che però terminava il lavoro alle undici di sera e quindi gli incontri diventavano impossibili. Maschio escogitò uno stratagemma: si faceva trovare in casa puntuale allo squillo del coprifuoco e usciva dopo. Finché fu scoperto. Lo scandalo venne messo a tacere: Maschio era troppo decisivo per l’Atalanta, Tentorio, uomo d’ordine, fu costretto a mandar giù un boccone amaro. Per lui era un delitto non rispettare le regole. Il segretario Carlo Terzi, che aveva un caratteraccio, scorbutico e poco incline ai rapporti umani, vigilava come un cerbero sui giocatori: nessuno doveva usare l’auto e allontanarsi dalla città.
Ma torniamo alla vigilia della finale. Inizia la settimana cruciale: si parte per Sarnico. Sul pullman l’allenatore Paolo Tabanelli spiega il programma della settimana e invita la squadra a concentrarsi. C’è la questione dei tacchetti degli scarpini: di ferro o di gomma. Dipende dalle condizioni atmosferiche. Due burloni come Magistrelli e Nova avvicinano Cometti che ha un difettuccio: quando piove, zagaglia. Il portierone di Romano di Lombardia non sta allo scherzo e manda a quel paese i due compagni che hanno così capito che domenica 2 giugno non pioverà e avvisano tutti gli altri. E un problema è risolto. A Sarnico gli allenamenti sono seguiti dai cronisti sportivi dei due giornali cittadini. Scrivono che il gruppo è compatto e sereno. A quei tempi le discussioni tattiche non erano all’ordine del giorno ma per tutta la settimana Luciano Magistrelli e Livio Roncoli, che non disputerà la finale, dibattono animatamente su come affrontare tatticamente il Toro. E’ una novità assoluta anche per i cronisti che di solito ascoltavano le discussioni dei giocatori che argomentavano su morose, auto, cinema, balli e canzonette. Comunque Tabanelli ha un problema di formazione non indifferente: Dino Da Costa, il giocatore di maggior classe, brasiliano dai piedi d’oro, salutista ante litteram, è infortunato e quindi bisogna sostituirlo. Ma con chi? Finalmente si arriva alla finale: sabato 1 giugno la squadra si trasferisce all’hotel Brunn, nelle vicinanze di San Siro. Durante il pranzo alcuni giocatori notano una vivace discussione tra Tabanelli e Tentorio:non è la prima volta ma non sanno che è anche l’ultima perché dopo la conquista della Coppa Tabanelli verrà esonerato e sostituito da Carlo Alberto Quario.
Negli spogliatoi il tecnico faentino detta la formazione: Pizzaballa, Pesenti, Nodari, Veneri, Gardoni, Colombo, Domenghini, Nielsen, Calvanese, Mereghetti e Magistrelli. Il mister, dunque, ha scelto il giovane mediano cremasco Veneri che marcherà Peirò e sposta in avanti Fleming Nielsen. In caso di rigori Tabanelli sceglierà tra Mereghetti e Magistrelli. In quegli anni il regolamento prevedeva un solo giocatore a calciare i rigori. A proposito di calci di rigore, Luciano Magistrelli mi ha raccontato un episodio singolare ed esilarante capitato a lui durante la partita col Modena di Coppa Italia 1964-65. Il match finì in parità (1-1) e si tirarono i calcio di rigore, alla fine l’arbitro Barolo di Noale si accorse di aver sbagliato il conteggio e quindi bisognava calciarne un altro, l’ultimo, quello decisivo. I giocatori erano tutti sotto la doccia, Mereghetti, che doveva battere il rigore, si rifiutò perché dichiarò di essere stanco, venne spedito in campo Magistrelli, in mutande e con solo maglia addosso e con una sola scarpa, pure quella sbagliata, al piede. Tirò e segnò.
Bergamo invade San Siro. Si entra in campo, i giocatori atalantini vedono bandiere granata dappertutto mentre i due capitani Gardoni e Bearzot si intrattengono con l’arbitro Sbardella, i giocatori delle due squadre si scambiano i saluti. “Pantera” Danova, ex milanista, si avvicina a Magistrelli, ex milanista e gli chiede: “Quale è il vostro premio?”. “Duecentomila” risponde l’atalantino. “A noi oltre un milione – aggiunge il granata – quindi lasciateci vincere e poi ti passo qualcosa”. “Stai calmo Pantera, perché oggi vi facciamo fuori”. Danova e Magistrelli incroceranno ancora i loro destini all’Atalanta e, poi, alla Virescit.
Al fischio d’inizio di Sbardella San Siro è tutto granata. Passano quattro minuti e l’Atalanta va in vantaggio: il terzino Buzzacchera atterra Domenghini, punizione di Nielsen, lo stesso Domenghini di testa infila Vieri. Quasi d’improvviso San Siro cambia colore: adesso è solo nerazzurro. La partita va avanti senza particolari sussulti con l’Atalanta che controlla anche se Bearzot spinge come un forsennato, Hitchens e Peirò sono sempre in agguato. All’inizio della ripresa Magistrelli riceve da Veneri, entra in area da sinistra, evita Vieri, sta per calciare ma sul pallone s’avventa come un falco sgangherato Angelo Domenghini: 2-0. Domingo abbraccia Magistrelli: “Scusa Luciano se ti ho fregato il gol”. Le bandiere nerazzurre garriscono nel cielo di San Siro. Il Toro s’affloscia, al 36’ Domenghini, ancora lui, su lancio di Mereghetti, batte per la terza volta Vieri. Poi a sei minuti dal termine Ferrini segna il gol della bandiera per i granata. E’ l’apoteosi per l’Atalanta e per tutti i bergamaschi presenti a San Siro. Tutti i nerazzurri, capitanati da Piero Gardoni con la coppa in mano, fanno il giro del campo tra gli applausi dei tifosi bergamaschi ma anche dai tifosi granata.
Il ritorno a Bergamo è un tripudio: in autostrada il pullman dell’Atalanta è affiancato e seguito dalle auto dei tifosi che sventolano le bandiere nerazzurre. Il carosello continua fino al Sentierone: Bergamo è in festa. Al Giornale del Popolo Aurelio Locati sta preparando le pagine speciali, anche l’Eco di Bergamo è pronto ad esaltare il trionfo ma nel corridoio che divide le varie redazioni don Spada passeggia avanti e indietro nervosamente mentre regge il breviario: ad ogni squillo di telefono si precipita nel suo studio in fondo al corridoio. Ad ogni trillo una fitta al cuore perché sa che Papa Giovanni ha le ore contate. Morirà il 3 giugno.
Giacomo Mayer