di Matteo Bonfanti
Era un sacco di tempo che non mi occupavo dei miei documenti. Avevo giusto la patente, dentro al cruscotto della Panda Pandona Aranciona a metano, l’ex mezzo dei miei, diventata la mia macchina grazie all’usucapione, che è una cosa fighissima, in voga già ai tempi dei romani, e vi spiego come funziona, che sono giorni grami e magari viene utile anche a voi. Ci s’impossessa di un oggetto carino (nel mio caso l’automobile utilitaria Fiat) e lo si porta via di soppiatto, approfittando che la proprietaria (nel mio caso mia madre) sta dormendo beata sul divano di casa. Lei dopo un po’ si sveglia, si accorge del furto, e, giustamente, rivuole quel che è suo, ma voi tenete duro, senza farvi mai beccare al telefono, stando attaccati a facebook solo dalle tre alle quattro di notte, evitando aperitivi e cene di gruppo (nel mio caso i frequenti raduni famigliari a Valgreghentino). Vent’anni così, da fantasmi, e l’oggetto carino diventa vostro. Questa è la legge italiana. Poi, se avete un genitore buono, potete scomparire per meno tempo. Io nell’affaire Pandona ho fatto perdere le mie tracce per un mesetto e mezzo. Passato, mia mamma ha comperato un’altra Panda, uguale a quell’altra, ha cambiato giusto il colore, l’ha presa rosso fuoco, e l’Aranciona è entrata in mio possesso. Chiudo la parentesi sull’usucapione rivelandovi che è un atto che dà una discreta dipendenza. A riprova le scarpe da calcio che indosso il giovedì sera al campo di Orio (sottratte sei mesi fa all’amico Gigi Foppa), lo shampoo che utilizzo dopo le sfide del martedì (inchiappettato al bel Bertocchi, il George Clooney della Bergamasca), i pantaloncini blu e la maglietta gialla col numero sette (di cui ignoro la vecchia proprietà, ma che potrebbero essere di Serse Sersao Pedretti), la giacchetta alla moda finta pelle (che Ernesto, il marito di mia mamma, continua disperatamente a cercare nell’armadio, senza capacitarsi della sparizione), i jeans casual che indosso in questo preciso momento (dello zio di mia moglie, recentemente passato a miglior vita).
Torno al dramma che sto vivendo, quello dei documenti, un problema che mi sta tenendo sveglio nelle ore notturne e che mi disturba fisicamente e psicologicamente durante l’intero arco della giornata. Tutto comincia nella notte tra sabato e domenica, credo intorno alle cinque, quando ritorno da una festa (mesta) a Treviolo. Palettato dai carabinieri di Curno, bravi tipi, molto gentili nonostante il pessimo orario. Mi chiedono i documenti e si scopre che la mia patente è scaduta da un botto. Mi danno 103 euro di multa, che diventano 156 (ma non ne sono certo) se non pago la contravvenzione entro cinque giorni (credo lavorativi). Posso guidare fino a casa, poi però non posso più. Se voglio tornare al volante, devo mettermi a rifarla, che è un bel casino. Necessita una visita medica all’autoscuola più vicina, la Drago, pagando ottantatre euri, portandogli le foto tessera di un onesto fotografo (cinque euri) ed esibendo la carta d’identità e il codice fiscale. Che non ho più ormai da tempo per via delle macchinette delle sigarette, che mi hanno pappato le tesserine, pure la sanitaria, un decennio fa o giù di lì, quando ero giovane. Da qualche mese utilizzo la carta regionale dei servizi di tale Miriam Orlando, amica di miei amici, incontrata solo una volta, quest’estate a un concerto ad Albino, senza nemmeno scambiarci quattro chiacchiere.
La domenica mattina rivelo l’accaduto a Costanza, mia moglie, confessandole una discreta preoccupazione (“è un dramma, tu hai visto per caso dove sia la mia carta d’identità?”), incolpando i miei due figli del mio disordine mentale (“il codice fiscale me l’hanno rubato loro, li ho visti, lo usavano nell’anno solare 2014 come carta Pokemon”). Lei s’incazza: “Matteo, tu sei nel disagio più totale. Sei il primo clandestino italiano. Non hai un documento che sia uno. Finisce che ti arrestano e ti mandano in Sudan, rimpatriato in un posto a caso”. Io mi giustifico, accusando il governo (che anche se stavolta non c’entra, comunque se lo merita): “Nessuno mi ha mai rivelato ci fosse una data di scadenza della patente. Non è un litro di latte o un formaggio francese dell’Esselunga. Guidare è qualcosa che sai fare, che hai imparato, un po’ come andare in bicicletta. E’ lo Stato che sbaglia. E’ colpa di Renzi, quel trafficone. E basta con tutte queste carte che ci ammazzano la poesia dei giorni”. Lei, acida: “Sei scemo. Tarato”. Io, come sempre perso nei miei viaggi, distante, a immaginarmi come quel turista cinese a cui hanno rubato il portafoglio in Germania ed è andato a far denuncia al posto di polizia più vicino, non l’hanno capito e si è ritrovato a passare dodici giorni in un centro per rifugiati.
Siamo a oggi, a questo pomeriggio prima della vittoria dell’Atalanta a Pescara col Crotone. Qualcosa ho fatto, nel panico: ho pagato la multa, domani alle 18 ho la visita medica, ho trovato qui in redazione la fotocopia della mia carta d’identità, mi sono informato su come rifare il codice fiscale, dalle nove alle tredici all’Agenzia delle Entrate. Ci credo, punto a tornare ad avere la patente un giorno non lontano. Mi do sei mesi per risolverla. Resta che sono contrario a qualsiasi documento perché io non sono quello della foto e non so manco quale sia la mia residenza perché il posto della mia anima cambia ogni settimana. E non mi piacciono i confini tra gli Stati, una brutta invenzione, aberrante. E mi fanno incazzare gli italiani, l’odio che hanno per i clandestini e che ci fa sembrare la brutta copia dei nazisti. Ma questa è un’altra storia, che non fa ridere e che mi fa male male in ogni mio istante. Ve ne parlerò. Intanto un abbraccio.