di Matteo Bonfanti
Bollito come non sono stato mai, mi sono preso un giorno di ferie dal mondo. Mi sono alzato con Zeno, il mio figlio minore, abbiamo “impiccato” il lavoro e la scuola materna, siamo arrivati in stazione e abbiamo preso il primo treno per Milano. Abbiamo visto il Duomo che ci ha fatto questionare parecchio (“ti dico che è una chiesa”, “no, papà, è un castello perché la gente parla, scatta foto e fa casino”), poi siamo finiti a sfondarci di caramelle gommose al Parco Sempione, quindi abbiamo visitato l’acquario comunale. C’erano le meduse. C’era, soprattutto, l’anguilla che a noi Bonfanti, che veniamo dal quel ramo del lago di Como, piace da morire. Siamo stati in gita fino a notte e abbiamo parlato un sacco. Molto dei Pokemon, parecchio delle ragioni di Willi Wonka, qualche volta, tra le righe, dell’Italia che verrà.
Ogni babbo, ma penso sia lo stesso per le mamme, passa gran parte del proprio tempo a immaginarsi i propri bambini da adulti. A me accade ogni sera, quando li guardo uno accanto all’altro sul divano e mi accorgo delle incredibili somiglianze che hanno con i miei famigliari. Vinicio, sette anni, ha ereditato da mio nonno Cesarino la passione per i numeri. Sono sue le sottrazioni, le moltiplicazioni, le frazioni, tutta la matematica, qualcosa che per me è incomprensibile e che al liceo, almeno una manciata di volte, mi ha persino spaventato a morte, regalandomi terribili incubi la notte prima delle famigerate interrogazioni programmate.
Zeno, invece, ha preso le parole, le mie, quelle di suo nonno Marco, di mia mamma Valeria, biografa. Zeno è un bimbino eppure ne ha a centinaia. E sta imparando a sceglierle: azzurre e gialle quando deve far colpo; rosse se mi parla di ciò che lo rende felice; nere se è arrabbiato; viola e blu se lo coglie l’immensa tristezza che abbiamo noi secondogeniti. E a cinque anni appena compiuti ha già iniziato a scriverle. Ieri a Milano gli ho chiesto il perché di tanta fretta e mi ha risposto che le frasi valgono solo se stanno su un foglio. Mi veniva da piangere, io, che sono un chiacchierone, l’ho capito ultimamente, a quasi quarant’anni. Dall’articolo credo si capisca che Zeno mi piace assai. Tra l’altro è bellissimo ed è il più piccolo della nostra stirpe, ma allo stesso tempo è un ometto, già grande perché è sensibile e pieno di dubbi, proprio come me.
Non temo nulla del futuro di Vinicio perché i matematici, al massimo, vanno a star bene all’estero, a Londra, a Hong Kong o a Rio. Di quello che sarà del mio piccino adorato, straordinariamente innamorato delle lettere, ne sono terrorizzato perché sono certo gli capiteranno le peggio cose.
In Italia scrivere la verità è diventato difficilissimo. Per questo lo fanno in pochissimi. Se si scava, ed è il nostro lavoro, si scopre che il migliore dei politici ha addosso la rogna, che gran parte degli imprenditori evade le tasse, che un alto numero di sportivi è dopato e che la maggioranza dei colleghi è prezzolato. I pochi cronisti rimasti a fare il nostro mestiere (e non quello dell’addetto stampa) o sono sotto tiro (è il caso di Saviano) oppure convivono con la spada di Damocle delle querele che, con una magistratura senza mezzi e in forte difficoltà, sono spesso scocciature che ti tengono in ballo per anni e che ti fanno spendere un sacco di soldi perché gli avvocati non lavorano gratis.
Lo fanno, invece, i giornalisti. Per un ragazzo che si sbatte e che chiede, giustamente, che i suoi articoli vengano retribuiti, ce ne sono altri dieci che, magari fanno un disastro dietro l’altro, ma sono vincenti perché non vogliono nulla. In tempi di crisi (e di drastico calo della pubblicità), è facile capire dove vada a cadere la scelta di molti editori.
Sul treno, tornando a Bergamo, Zeno voleva scrivere e disegnare quello che avevamo visto. Era entusiasta del suono dei nomi dei pesci: scorfano, luccio, carpa. Voleva vedere se quelle parole sarebbero brillate anche sul foglio.
L’ho convinto a cambiare gioco: ci siamo messi a contare le persone che c’erano sul nostro vagone. Gli studenti universitari valevano due punti, quattro se dormivano, gli extracomunitari cinque punti, la gente al telefono e le vecchine dieci. Abbiamo fatto settantadue. Da puntare sulla ruota di Milano.