Mi sono goduto questa meravigliosa, coraggiosa e indomita Dea, grande e forte nonostante un arbitro probabilmente tifoso del Real fin da bambino, da solo e nel mio luogo dei sogni, la redazione. Ho seminato le mie tracce, mi sono preso una birrozza 8.6 alla Coop ed ho pensato a questi anni, segnati ogni volta da un’Atalanta diversa, all’inizio quella del Vava coi due Zenoni e Donati, tre che mi facevano impazzire, poi quella del Delio, il mio primo grande amore calcistico per via di Makinwa là davanti, quindi quella di Doni e Zampagnone, il giocatore che più ho amato al mondo, bello da morirci perché uguale uguale a me, fuori dalle regole in campo come nella vita. Ora c’è la banda del Gasp, l’edizione più figa di sempre, pari alle grandi soprattutto per tre cose non comuni, cuore, sangue e sudore.
Sono di Lecco, sono arrivato a Bergamo nel 2000, chiamato allora per collaborare dai due giornali locali, uno che era splendido e splendente, al suo massimo, ma cattolicissimo, e per me com’ero allora, con due treccine viola tra i capelli lunghi lunghi, non era proprio il caso, l’altro sgangherato, ma laico, libero che più libero non si può, proprio come sentivo fossero all’epoca sia la mia anima che il mio cuore.
Ero un ex calciatore, anche abbastanza bravino, ma solo se mi mettevano a correre su e giù dalla fascia destra, votato al giornalismo per via di una rotula spezzata in due e subito ricostruita, un menisco che non ho più e due crociati saltati. “Se torni in campo, succede che finisci in carrozzella – mi aveva detto il dottor Bartesaghi, ortopedico del Manzoni -. Smetti. Devi”. Ed ero piccolo, avevo poco più di vent’anni, così il dottore aveva avvisato pure mia mamma, la Vale, la mia prima cosa bella, che mi vedeva fare la borsa e le venivano le lacrime. Mi aspettava sulla porta, sbarrandomela: “Matti, non andare agli allenamenti. Rischi l’artrosi. Non farmelo. Non puoi”.
Al Giornale di Bergamo mi avevano messo a fare la cronaca nera, per sostituire Stefano Serpellini, un genio, passato a L’Eco. Lui faceva sognare i lettori, io li facevo incazzare, così dopo un paio di minchiate abbastanza grosse, un morto che invece era vivo, un suicida che io credevo fosse stato suicidato, il direttore dell’epoca, Sergio Carrara, mi aveva spostato prima alla cultura, altra materia per me tutt’ora oscura tra lirica, teatro e jazz al Donizetti, poi allo sport, che qui, a Bergamo, è tanto tanto l’Atalanta, all’epoca quella del Vava, una banda di ragazzini terribili e meravigliosi, capaci di spaccare il culo pure alle big della Serie A nella domenica perfetta, ma solo nel fortino, che allora si chiamava Atleti Azzurri d’Italia ed era piccino picciò, ma fantastico perché vibrava con i cori della Nord.
Non sto a dilungarmi, perché questo viaggio è stato la mia vita e ci vorrebbe un altro libro, solo dire che ho amato Ivan, una persona strana perché istintiva, ma pure buona e generosa, poi Cristiano, che a una certa, se si fosse candidato, sarebbe potuto diventare sindaco di Bergamo tanto era bravo coi piedi, quindi Riccardone, le sue rovesciate, gli aperitivi e le risate. Negli anni ho capito il Bocia, il suo viaggio ignorante, ma vero e onesto, sempre fino in fondo. Ultimamente ho pianto per la cessione del Papu, pur capendo a priori le ragioni del Gasp, ne ho scritto e ho suscitato un sacco di casini spaccando il cuore dei tifosi, come me sedotti e abbandonati dal fuoriclasse argentino.
Evito di fare i mille nomi e cognomi dei nerazzurri che sento dentro, tra l’universo, lo stomaco e il cuore. Mi mettessi ora, dovrei parlare di un’infinità di tifosi, un centinaio che col pretesto del pallone sono diventati tra i miei amici più cari, dico solo che per me la Dea è ed è stata un’avventura fantastica, una crescita meravigliosa, che mai e poi mai avrei immaginato. Vederla oggi in dieci tenere testa al Real Madrid, forse la squadra più forte al mondo, quella che schiera l’ultimo Pallone d’Oro, mi ha fatto pensare alla mia vita professionale, sentendomi simile, mai domo, in continua ascesa, sognando di avere dentro quello spirito indomito della società bergamasca, di tutti i nerazzurri, quelli che stanno dietro la scrivania, quelli che sudano in campo, chi sbraita in panchina e chi adesso, in un giorno meritato e normale, starebbe sugli spalti a cantare e a festeggiare.
Quando ho incontrato la Dea ero un giornalista alle prime armi, che lottava per non retrocedere in una città che non conosceva, ora sono il direttore di un giornale grande, forte e controvento, ho scritto un libro molto amato e ogni mio articolo è letto da migliaia di persone. Spesso divido gli animi, ma sempre vengo letto e riletto.
Insomma forza Dea, più di un club, un’idea, che senza torti arbitrali può battere anche il Real Madrid, proprio come vorrei capitasse a me ogni volta che incontro i miei demoni.
Matteo Bonfanti
Matteo Bonfanti