di Simone Fornoni

Sui prati la spiegava a chiunque. Una volta abbandonati, non l’ha imparata mai. I maligni diranno che non ha retto alla sequela di stravizi, dalla famigerata cocaina a una vita privata tutt’altro che irreprensibile, spesa a fottersi l’esistenza in ogni sua forma, assaporandola con tutti e cinque i sensi. La realtà è che la salita in Cielo di Diego Armando Maradona, sull’onda nemmeno troppo lunga dell’edema subdurale che ne aveva richiesto l’operazione al cervello il 4 novembre scorso alla clinica Olivos di Buenos Aires, è un pugno nello stomaco e insieme un calcio in faccia per tutti. Ma il rimpianto per l’artista del pallone che è stato, confermato dal cordoglio unanime suscitato dalla sua prematura scomparsa, non è certo un sentimento adatto a chi per ragioni anagrafiche ha fatto in tempo a bearsi gli occhi di quello che il Barrilete Cosmico riusciva a combinare su un campo di calcio. Assolutamente irreale, tipo le rovesciate dal nulla dal dischetto di centrocampo, magari nell’edizione più scalcinata della Copa America, o come il famoso multi-dribbling con discesa trionfale verso la porta contro l’Inghilterra a Mexico ’86, mondiale risolto non da lui ma sulla sua imbeccata geniale per Jorge Burruchaga.

Nossignori, il rimpianto tocca alle nuove generazioni, costrette ad ammirarlo su YouTube o nei filmati riproposti dalla trasmissioni di approfondimento sportivo. Perché un calcio vissuto di emozioni dal calciatore che più di ogni altro scendeva a pelo d’erba giocando col cuore non può essere spiegato. Va vissuto. Pardon, andava vissuto. Chi scrive, tifoso della Juventus e di Michel Platini, l’asso più razionale e furbo mai visto, un calcolatore al millesimo di ogni giocata che non azzardava un dribbling dando via la palla in modo perfetto o calciandola nello specchio pur di non subire la legnata di un marcatore carogna, rammenta le parole di Dieguito, che pure rispettava il suo grande avversario col 10 sulle spalle, così diverso da lui, El Diez per antonomasia: “Era molto freddo, troppo”. Il contrario del tipo di asso che era il Pibe de Oro, anche come piede preferito, perché il destro lui lo adoperava forse solo per schiacciare l’acceleratore della Ferrari Testarossa comprata coi soldi del Napoli. Casa sua, nonostante i tira e molla col presidente Corrado Ferlaino verso gli anni novanta: due scudetti, una Coppa Italia che mandò l’Atalanta finalista in Coppa delle Coppe nonostante fosse retrocessa e, appunto, quel trofeo soffiato allo Stoccarda dopo esser passato sulle Zebre in semifinale.

Il sinistro più magico del mondo, capace di prodezze che al giorno d’oggi nemmeno a sognarsele, dalla carriera accorciata dai motivi che tutti noi possiamo apprendere anche sfogliando wikipedia o un qualunque motore di ricerca, ma dalle doti irraggiungibili per scienza infusa. Fortissimo da fermo, in accelerazione, su azione, in impostazione, nei filtranti, nei cross, il tutto con naturalezza, da uno cui la sfera di cuoio pompava il sangue e innervava la quotidianità. La Mano de Diòs, il barbatrucco sempre contro gli inglesi per beffare Peter Shilton facendo credere a una terna un po’ cecata di averla messa di cabeza, era soltanto un effetto collaterale del suo modo di essere, assolutamente spontaneo, non ingabbiabile in schemi cervellotici, giostrando in posizioni sullo scacchiere che doveva sentirsi dentro oppure niente. Un vulcano in eruzione sotto il Vesuvio, un argentino che parlava l’esperanto della disciplina più bella, diffusa e popolare del mondo e considerava casa sua laddove lo hanno amato di più: “La mia prima grande vittoria è stato il Mondiale, ma non avevo vinto a casa mia. Io sono felice di essere stato il più forte al Napoli”, una delle sue frasi celebri.

Non era tutto istinto selvaggio e feroce. Chi vive di quello si figura un universo ideale e va avanti a mal di pancia e di fegato. Lui è morto di crepacuore, alla lunga, perché senza quell’attrezzo di cuoio tra gli scarpini probabilmente doveva rincorrere gli eccessi per sentirsi vivo. L’aver lavorato a braccetto con tatticisti puri come Carlos Bilardo e Ottavio Bianchi, il Narigon che per non ostacolarne la leadership nella Selecciòn non esitò a relegare in un angolo El Jefe Passarella e il bresciano-bergamasco diventato grande sulla panchina a Fuorigrotta, accoppiò alla sua tecnica mostruosa quel quid in più di strategia necessario a tramutare la classe in risultati concreti. Mettiamoci anche Albertino Bigon, sempre nei Ciucci, tricolore più Supercoppa Italiana. Non era certo una mera questione di estetica o di forza fisica racchiusa in quello scrigno tondetto e bitorzoluto, scavigliato ai tempi del Camp Nou dal macellaio basco Goicoetxea, dalle gambe corte ma muscolarmente ben piazzate, roba che per tirarlo giù dovevi ricorrere alle brutte. Sapeva essere uomo squadra, oltre che amicone di tutti i compagni, senza contare la stima dispensata a piene mani per gli avversari. Un attaccante che non era un attaccante, un centrocampista avanzato che sfuggiva al copione ma non dimenticando il senso e lo spirito del collettivo.

Un trascinatore vero che prendeva botte a destra e sinistra, eppure bravo a schiaffarne nel sacco 312 in 588 allacciate di scarpe nei club, in un’epoca in cui ai difensori gli arbitri perdonavano tanto e il gioco in generale era più sparagnino, tra Argentinos Juniors, il Boca Juniors per cui tifava e che gli ha dedicato la Bombonera, Barcellona, Napoli, Siviglia, Newell’s Old Boys e ancora gli Xeneizes chiudendo a 38 primavere quasi suonate (candeline il 30 ottobre) quando ormai era già un ex da tempo, buttato malamente fuori da USA ’94 per un bel minestrone di sostanze proibite dopo aver castigato la Grecia con un gollasso dei suoi, mira presa e incrocio battezzato come nulla fosse. Nelle nazionali giovanili, 8 in 15 di Under 20 (oro ai Mondiali giapponesi del 1979) e 34 in 91 al piano di sopra. In panca, mestiere non suo, perché il cuore e le coronarie fanno a pugni con la filosofia a tavolino e la calma olimpica richiesta dal ruolo, Textil Mandiyú, Racing Club, Argentina (2008-2010), Al-Wasl, Fujairah, Dorados e Gimnasia La Plata. Nessuno come lui. Di carne e ossa, di sangue e cuore. Non di plastica, come i fighetti patinati d’oggigiorno. E allora a puntarti metatarsi e tibie c’erano i Claudio Gentile e i Sergio Brio di turno, uomo su uomo, cenere spenta sulla pelle. Il calcio epidermico di Diego Armando Maradona, l’extraterrestre prestato a un pianeta che si prende troppo sul serio, scordandosi della gioia e del divertimento di quella cosa che rotola, rivoluto indietro un po’ presto dal Cielo.