Sentivo una strana vibrazione che però nel dormiveglia non avevo associato al cellulare. Quando ho raccolto le idee e finalmente capito, mi sono alzato il più velocemente possibile stando attento a possibili capogiri. Guardo il display e leggo “ufficio”. Rispondo e dall’altro capo sento la conciliante voce di Vanessa che mi saluta amichevolmente e chiede se posso passare in redazione perché il direttore ha bisogno di parlarmi. Già il fatto che “lui” volesse vedermi di persona avrebbe dovuto farmi capire l’importanza della cosa ma mi ero appena svegliato perciò accampo futili scuse, rimandando a domani. Vanessa, che è una dolce ragazza, mi dice che “sarebbe meglio passassi ora”, al che gli ingranaggi cerebrali si mettono in fase elaborando la frase “arrivo subito”. Dopo una veloce sciacquata, mi vesto, scendo, prendo la moto e dalla periferia volo in centro. Arrivato nei pressi del parco Goisis entro nel parcheggio interrato del palazzo dall’altro lato della strada e, durante le manovre, mi accorgo non ci sia la macchina del capo. Mi viene un dubbio sulla sua presenza ma non posso nemmeno escluderla perché non ho guardato se sul tetto ci sia o meno il suo elicottero. Cammino frettolosamente mentre cerco la tessera magnetica per chiamare l’ascensore, appoggio sul pad e le porte si aprono subito, schiaccio il bottone in alto, quello diverso, quello dorato, chiedendomi per l’ennesima volta se sia oro, ottone, placcato o verniciato. La velocità di ascesa è notevole ma non da far mancare il fiato perché l’accelerazione è graduale, sia in partenza che in arrivo. Giunto all’ultimo piano un trillo segnala la riapertura delle porte ed entro direttamente in redazione che, beh, questa sì che è da togliere il respiro: il legno è ovunque, di diversa qualità, alternato al vetro, difatti la luminosità è spaziale rendendolo enorme più del vero. Il pavimento è in tek e sulle poche pareti bianche sono affissi quadri raffiguranti non ho mai capito cosa. Ad accogliermi lei, Vanessa, che in teoria dovrebbe essere la segretaria ma in realtà è laureata in… (roba complicata) e perciò, grazie alla sua notevole preparazione, si occupa di “qualsiasi cosa” riguardi il capo. La ragazza, da dietro la sua scrivania in mogano a forma di mezzaluna e grande tre volte il mio tavolo in soggiorno, mi fa un sorriso accomodante dicendomi di proseguire che mi “stanno” aspettando. Sarò sincero: l’uso del plurale mi turba ma cerco di non pensarci, così faccio un sorriso un poco tirato mentre noto Vanessa pigiare un pulsantino sulla console, annunciandomi. Mi inoltro per il lungo corridoio verso l’ufficio del direttore osservando i dipinti sulle pareti come se stavolta avessi trovato una chiave di lettura. Arrivato alle porte in vetro satinato appoggio il palmo scostandole a sufficienza per poter entrare e, varcata la soglia, provo la solita stringente sensazione perché l’ufficio del capo è più grande del mio appartamento. La porta si richiude ed io resto fermo ad aspettare, in silenzio. Nessuno dei presenti s’accorge di me siccome la loro attenzione è calamitata da una delle persone in quella sala che fra le dita ha un “cervo volante”, uno di quegli insetti neri, enormi, con due corna spaventose che sembrano fatte apposta per recidere un dito. La donna invece ci sta giocando mentre spiega con calma esemplare che non vi sia nulla da temere come per la stragrande maggioranza degli insetti presenti nel nord Europa. Illuminante, davvero. Attimi dopo lei si alza, libera il coleottero e, nel richiudere uno dei finestroni da cui era entrato, s’accorge della mia presenza e mi indica. Un “carissimo” del direttore e un gesto eloquente mi invitano ad avvicinarmi al grande tavolo in alabastro a cui son sedute altre quattro persone: un magnate del petrolio con un sontuoso cappello da texano, una famosa scrittrice nonché titolare d’una società leader nel settore, la shiatsuka nonché consigliere spirituale del capo, ed infine l’entomologa di cui sopra. Un gruppo di persone alquanto eterogeneo, radunate in quella sala per un motivo che ignoro.
-Siediti- mi dice mentre s’accende un cubano lungo più d’un dito -ti ho fatto chiamare perché ho notato un calo nel tuo indice di gradimento. Le tue storie d’amore strappalacrime francamente hanno stancato. Reinventati. Osa di più. Ecco, scrivi di sesso.- e ciò detto, immerso in una nuvola di fumo, appoggia le pregiate scarpe in coccodrillo sul tavolo in alabastro, fissandomi. I quattro al tavolo si voltano verso di me in attesa d’una replica, io esito ma, nonostante la sudditanza psicologica, trovo il coraggio di aprir bocca e lui, il mio capo, come se disponesse di un telecomando, con un cenno toglie il volume alla mia voce e, ruotando il dito, mi fa’ uscire dal suo ufficio. Il vetro satinato mi separa di nuovo dalla realtà della sala, lo guardo inebetito, quindi mi volto e in silenzio ripercorro il corridoio, arrivo dall’altra parte, pigio il bottone, l’ascensore si apre, entro, mi giro, guardo Vanessa, lei mi sorride e, senza ch’io tocchi alcun tasto, le porte si chiudono scaraventandomi giù all’inferno.
Marcus Joseph Bax