Per gli attaccanti, si sa, il gol è tutto. Ogni partita senza una rete, qualunque sia il risultato finale, lascia sempre un po’ di amaro in bocca. E a poco serve aver giocato bene, avere aiutato la squadra, aver servito qualche assist: il gol è roba ben diversa. Serve a pochissimo anche che compagni, allenatore e dirigenti picchino una mano sulla spalla cercando di darti coraggio perché dentro di sé l’attaccante sa che gli manca qualcosa, sa che non ha fatto fino in fondo il suo dovere. Serve a poco anche che gli allenatori, soprattutto quelli della nuova generazione, dicano che l’attaccante moderno non deve segnare e basta. Anzi, che debba aiutare la fase difensiva, debba far giocare la squadra, debba giocare a tutto campo e poi sì, anche segnare. Serve a poco perché tanto la prima domanda che chiunque pone all’attaccante non appena apprende che il suo interlocutore gioca in quel ruolo è: quanti gol hai fatto quest’anno? E un conto è rispondere 10, un conto dire 2 perché la reazione di chi ha fatto la domanda è sempre eloquente. O ammirazione o quasi disprezzo, come se marcasse a fuoco già la qualità di quell’attaccante. E la frustrazione, nel secondo caso, è tanta. Anche perché poi si sa che più uno si intestardisce cercando di segnare più il gol non arriva mentre quando l’attaccante meno se l’aspetta fa centro e rischia anche di non fermarsi più. Un po’ come un single che vorrebbe trovare la sua dolce metà, che si sente pronto per trovare quella giusta, che avrebbe voglia di dare e ricevere amore, che – insomma – si sente “in forma” e che allora a testa bassa la cerca sicuro di trovarla senza però riuscire nell’intento. Poi un giorno si sveglia e… come il gol. Ora, il problema per l’attaccante, non sta solo nel non segnare ma nel rimuginare sui gol sbagliati. Perché il più delle volte succede che l’astinenza subentra non perché non si vada al tiro o perché non si abbiano occasioni ma perché, al contrario, ne arrivano a grappoli ma si sbagliano. Anche le più facili, anche quelle che portano a dire il più classico “lo facevo anche io” e portano gli spettatori a sorridere sugli errori di quello che fino a poche partite prima era considerato un bomber (l’ultima storia è quella relativa a Mario Gomez). Ma la tortura che è costretto a subire il centravanti non si ferma qui: essendo lui il finalizzatore e quello che alla lunga decide le sorti di una squadra, quando non riesce a buttarla dentro prega doppiamente perché la domenica arrivino comunque i tre punti aggrappandosi più del solito alla capacità dei suoi compagni. Ecco per me domenica è stato proprio così. 1-0 segnato quasi subito il fischio d’inizio del secondo tempo dal mio partner d’attacco con una zampata che aveva sbloccato una partita complicatissima e tiratissima. Dopo il vantaggio bisognava chiuderla, era fondamentale, decisivo, cruciale sia per quella partita che per il campionato. Dopo pochi minuti prima occasione per me, sul destro che non è il mio piede e a tu per tu col portiere mi faccio goffamente anticipare. E una. Loro attaccano a testa bassa, prendono una traversa, rischiamo grosso. Ma un’altra occasione capita sui miei piedi: defilato sulla sinistra dopo aver saltato un uomo, questa volta è sul mio piede, sento la porta e calcio a incrociare sul palo lungo. Ma quel maledetto pallone sprofonda nel fango di Vidalengo e termina ben lontano dalla porta. Rimango sdraiato per terra rivedendo per un attimo un film già visto troppe volte: gol sbagliato (da me) gol subito. E infatti loro attaccano ancora, prego perché ogni palla non entri. Confido, appunto, nei miei compagni che salvano l’impossibile. Poi il colpo di grazia (giusto): sostituito. E a quel punto non posso davvero che pregare. Con il mio gol erano tre punti in cassaforte, ora invece ci sarà da sudare fino all’ultimo. Guardo e non guardo cosa succede in campo, poi a un soffio dalla fine è il loro attaccante ad essere colpito dalla maledizione quando a porta spalancata dal limite dell’area piccola manda alto il pallone del pareggio. Devo farmela raccontare quell’azione perché non appena ho capito la situazione ho abbassato la testa e mi sono detto: “Bravo, dovevi chiuderla e invece eccoci qua, altra beffa: stanotte non si dorme”. Invece tiro un sospiro di sollievo che termina solo al triplice fischio quando sento i nervi che piano piano si distendono: almeno per questa volta ce l’abbiamo fatta, l’errore è costato solo qualche brivido di troppo. Per adesso vediamo il bicchiere mezzo pieno, fino a martedì quando non appena riavrò il pallone tra i piedi verrò mosso da quella voglia disperata di buttarla dentro.
Federico Biffignandi