di Simone Fornoni
A volte compaiono squarci di luce nel buio di un momento triste, indecifrabile, deprimente e depressivo: il classico tunnel di cui si stenta a ricordarsi l’inizio e a maggior ragione a vedere la fine. Lampi così accecanti da rischiare di colpire le cornee col flash di un’illusione peregrina, anche quando a mente fredda sono segnali di speranza. Il calcio durante il lockdown è così. Anche per le redazioni di molti giornali o periodici come il nostro, costretti a rifarsi con le interviste ai protagonisti dei dilettanti di casa nostra divisi tra attesa fremente di ripartire e pessimismo perché la realtà fa male e fa schifo, costretti a riempitivi d’accatto stile voli delle rondini a primavera cogli occhi spalancati davanti alla televisione e ai live di Virgilio o dell’Uefa mentre l’autunno si accinge a diventare inverno. Le partite silenziose e a tratti spettrali dei professionisti, quelli che col tampone positivo si isolano e finisce tutto entro breve, mentre dalla D in giù sono cazzi acidi, perché si deve stare a casa dal lavoro e le famiglie ahiloro sono abituate ad accoppiare lo stesso pranzi e cene. O il Cenone, quello negatoci preventivamente dall’infettivologo Galli dal ghigno beffardo stampato H24 sul picoclo schermo, dal superconsulente Ricciardi che faceva le particine nei film di Mario Merola e infine dal premier Conte, mister Potenza di Fuoco, peccato sia fuoco amico contro noialtri.
Spes ultima dea, dicevano i romani quando masticavano il latino e comandavano il mondo. Metti il fuoriclasse che pareva averla persa in prima persona singolare indeclinabile, la maledetta speranza di rampare fuori dal tunnel più lungo che la contemporaneità conosca. Uno per la sua patria non la schiaffava dentro da un annetto, nel ko per 3-2 delle qualificazioni europee in casa della Polonia (19 novembre 2019), e in generale dalla sontuosa, indimenticabile, a ripensarci commovente quaterna al “Mestalla”, ottavo di ritorno di Champions League, una cosa incredibile, segnava soltanto lui perché così aveva deciso, nel silenzio del pubblico che non c’era e nel fragore del suo calcio tutto istinto, fantasia, sterzate, furberie per fregare una figura eterea come il marcatore diretto, conclusioni impossibili nate chissà dove e da quale decisione improvvisa. Uno che come il vate cieco Tiresia vedeva sentieri e itinerari invisibili agli altri, anche quelli di un ritorno impossibile, da indovino consultato da Ulisse nella disperazione di non riabbracciare mai più la sua Itaca. Il ruolo dell’eroe dal ritorno alla normalità insperato, ovvero i colpi di genio inarrivabili, era toccato a lui, che a pelo d’erba scorgeva sentieri verso gli angoli della porta
Era il 10 marzo scorso. Da lì in poi, il primo tutti a casa di una serie giunta a due, ma all’epoca anche il pallone aveva smesso di rotolare, pure quello dorato e pesantissimo da calciare dei piani alti. L’ultimissima con la Juve a Torino, una serata più no che sì, era l’11 luglio, trentottesimo anniversario della vittoria bearzottiana dei Mondiali di Spagna contro i crucchi: blackout, voci incontrollate, il ritorno a casa dove si parla la sua lingua, condivisa con milioni di persone a differenza di quella sul campo, che conosce soltanto lui. Poi, a mesi di distanza, gli outing del Papu e i coming out personali: il Coronavirus che spegne la luce, la depressione. Tutto nel cassetto in un attimo dopo altri sprecati nel vano tentativo di mandare in porta compagni zucconi e privi della sua scienza. Ha dovuto pensarci in prima persona, per dimenticarsi di quel che è stato e provare, noblesse oblige, a farlo dimenticare a noi, ormai persi nella disperazione del Nulla cosmico che ci avvolge per via di un nemico infido. Josip Ilicic (l’avevate indovinato di chi si stesse parlando? Non dite di no, non vi si potrebbe credere…), domenica sera a Lubiana, l’ha risolta in modo suo. Senza nemmeno tentare di spiazzare il portiere altrui, su un rigoricchio più che generoso, concesso per un tocco totalmente involontario di mezza spalla provocato da un compagno, non importa nemmeno chi. Lui, San Giuseppe, 72 sulla schiena nell’Atalanta e 7 nella Slovenia, sulla cui panchina siede Matjaz Kek, lo stesso ct del suo esordio. Ebbene: doppia cifra e partita vinta al novantaquattresimo, col mister a concedergli la standing ovation che non può esserci perché sugli spalti non c’è proprio un cazzo di nessuno, un cambio al novantaseiesimo perché agli eroi la passerella si stende come tappeto di rose sotto i piedi tacchettati e basta.
Il ritorno al gol, il segnale di una nuova normalità. Se l’ha ritrovata lui che sembrava perduto, figuriamoci noi. Che ci barcameniamo alla ricerca di un orizzonte cogli occhietti cisposi, velati dalla narrazione quotidiana dei media e del governo di segno catastrofista e da una situazione fattasi insostenibile al pari di marzo-aprile, obbligati a colpi di decreto a carcerarci senza davvero un perché, solo perché le istituzioni, che il ritorno all’iniziale maiuscola devono meritarselo a lacrime e sangue ben più del nostro alla quotidianità rubataci per colpa delle loro irresponsabili insipienza e mancanza di previdenza, leggi posti letto, durante l’estate in cui hanno finto di liberarci dalle catene se ne sono state panza all’aria in spiaggia a prendere il sole. Quello l’ha avvistato Matteo Pessina, esordio nel Club Italia, pazienza se nell’inutile secondo tempo contro l’Estonia in cui ha comunque acceso qualche focherello. Quello continuano a sforzarsi di sognarlo i nostri amici dilettanti al buio fino a febbraio, quelli senza i quali noi di Bergamo & Sport non viviamo, nella speranza di potersi un giorno tornare a scannare tra le risate sui campetti di provincia, col contorno schiamazzante e felice di fidanzate, giornalisti al seguito che li tempestano di domande inopportune e importune, figli, fratelli e sorelle che portano in spogliatoio il borsone dimenticato ai loro cari. Segnali o illusioni di speranza, nelle loro parole al telefono, come il gol di Ilicic e il battesimo del fuoco di Pessina. Non perdiamoceli per strada, afferriamone il senso: crogiolarsi nel dolore e nella noia di aver perso il pane per la seconda volta nell’annus horribilis 2020, anche basta. Riprendiamoci il pallone, riafferriamo le nostre vite sospese.