Come gran parte degli italiani, chiudo le mie giornate estive leggendo le ultime di mercato in internet e sui social. Così anche ieri notte, dopo una bellissima serata vintage alla festa dell’Unità di Stezzano in cui ho incontrato un sacco di amici che non vedevo da un po’ e che mi ha visto protagonista in due balli di gruppo di quelli giusti. Sul divano, mentre digerivo le mie sette-otto costine quotidiane, mi sono imbattuto nell’analisi che i nostri atalantologi più quotati facevano della cessione di Rasmus Højlund al Manchester United. Il tenore dei post mi ha fatto pensare, i due, in gamba, giustamente famosi nel circuito di chi vive per la Dea, erano a dir poco esaltati per gli 85 milioni che la proprietà dell’Atalanta Calcio incasserà per la vendita del suo giovane gioiello. Manco i bergamaschi avessero già vinto lo scudetto 2023-2024, la cosa che più mi colpiva era l’uso massiccio della parola capolavoro, con la stragrande maggioranza dei lettori che condivideva in toto gli elogi ai dirigenti nerazzurri.
Avrei voluto dire la mia, ma non avevo voglia di scatenare il solito casino per via che mi vengono ogni volta ragionamenti opposti al comune sentire sia locale che nazionale. E non lo faccio neppure ora, solo non posso non notare quanto il calcio e la sua gente, anche a Bergamo, siano profondamente cambiati. Mi spiego meglio. Da ragazzino, come tutti, amavo smisuratamente le giocate di Roberto Baggio. Era la fine degli anni Ottanta quando un giovane Divin Codino stava iniziando a far vedere con la maglia della Fiorentina un repertorio di dribbling, gol e assist mai visto tra i giocatori italiani. Ecco, l’istantanea del cambiamento sta proprio lì, nel momento in cui la Juventus va a bussare in casa viola e porta a Torino uno dei prospetti più interessanti a livello europeo per la cifra monstre di 27 miliardi di lire (25 cash più Renato Buso valutato due miliardi). Cosa succede a Firenze? Il putiferio.
Cosa accade oggi a Bergamo il giorno dopo che l’Atalanta ha appena ceduto un centravanti ventenne destinato probabilmente a diventare nel prossimo biennio uno dei cinque giocatori più determinanti al mondo? Un interminabile e lunghissimo scroscio di applausi per la Dea e chi ne tiene le fila, vicenda avvenuta in modo pressoché identico poche settimane fa a Milanello, con il sì della bandiera Tonali agli arabi del Newcastle “sacrosanto perché l’offerta è irrinunciabile”.
Che dire? Un po’ c’è qualcosa di strettamente locale, Percassi, assoluto genio della comunicazione, ha convinto sia chi ne scrive che chi ne è tifoso che l’Atalanta non è solo sua e di Pagliuca, ma è piuttosto un patrimonio dei bergamaschi, felici se i conti sono in ordine e se si fanno utili spesso cedendo quei giocatori che potrebbero portare i nerazzurri alla conquista di un trofeo, reinvestendo ogni anno almeno metà degli introiti in altri talenti per plusvalenze future sempre più danarose. E il presidente è straordinariamente credibile per via dei risultati, a un passettino dalle grandi, un balzo gigante nel secolo e passa di storia del club orobico.
Ma il discorso è generale: è cambiato alle radici il pensiero di qualsiasi appassionato di fubal in Italia, che vive nell’ansia delle plusvalenze e della sostenibilità della rosa, nell’idea che ci si possa rinforzare solo dopo essersi indeboliti. La cassa prima di tutto. E, senza che ce ne siamo accorti, noi tifosi siamo diventati dei piccoli commercialisti.