di Matteo Bonfanti

Già vederlo lì a stendere la pasta, mangiandone più o meno la metà di nascosto da sua nonna, è stata un’emozione. Perché era vedersi in uno specchio, di quelli magici che c’erano alle giostre. Guardavo mio figlio Vinicio e rivedevo me trent’anni prima, quando mia mamma, d’estate, mi mandava a Bologna. Io e mia nonna Giuseppina stavamo ogni mattina a fare i tortellini e a me piaceva da matti: le mani immerse nell’impasto, i quadretti da fare, da riempire senza pensarci sopra, meccanicamente, chiacchierando un sacco.
Più che altro parlavamo di Dio e della Madonna. Perché la Giuseppina, che è ancora vivente, all’epoca era un’ultrà del rosario, se ne sparava quattro-cinque al giorno, obbligando i presenti ad estenuanti funzioni casalinghe. E io, che ero buonissimo e in odore di vocazione, ero spesso in prima linea. Non mi pesava, un po’ mi piaceva, perché avevo iniziato il catechismo e la religione m’incuriosiva assai. Diverse cose non mi quadravano, mi davano da pensare, su tutte quella che il Cristo da bimbino “si è incarnato nel seno della Vergine”. M’immaginavo fosse qualcosa che dà un dolore pazzesco, peggio che dieci calci sugli stinchi: un neonato, che è comunque già grosso, peserà sui tre chili, viene lanciato giù dal cielo dagli angeli e, lui, in picchiata, s’infila in mezzo alle tette di questa povera donna, appunto Maria. Che non fa una piega, nemmeno un urlo, ma deve aver passato dieci minuti da incubo.
E io, che da bambino ero grande, facevo anche delle domande giuste, insomma che avevano un senso. Ero preoccupato per le condizioni di salute della Madonna, mi chiedevo se avesse riportato delle lesioni gravi a seguito della collisione col baby Messia e del successivo impianto istantaneo del santissimo pupo tra le sue mammelle. “Nonna, ma la Madonna ha avuto male? Sanguinava? Sopra la pancia le è venuto un buco? Si è poi rimarginato? Come sta ora che è alla sinistra del Padre? E’ guarita o ha ancora quella brutta ferita?”. Lei, la Giuseppina, non sapeva cosa dire, non si era mai posta il problema, alle preghiere ci credeva punto e basta, non stava lì ad analizzarle parola per parola. E allora cambiava discorso. Si spostava su Gesù che, tolta la crocifissione, era una vicenda molto più soft, la storia di uno dei tanti figli dei fiori cresciuti negli anni settanta. Via, quindi, alla ricostruzione fatta da me a Bologna nel luglio del 1986 mescolando le frasi di mia nonna a quanto vedevo in televisione, ai racconti dei miei genitori e alla mia fervida immaginazione: il nostro salvatore era un ragazzo bellissimo, biondo, alto, magro e con gli occhi azzurri. Di famiglia benestante (il padre era proprietario di una famosa falegnameria), passata l’adolescenza era diventato un capellone con la fascetta sulla fronte. Dalla parte della povera gente, spendeva le sue giornate alle feste del jet set che c’era in Giordania intorno al 20 dopo Cristo. Che, tra l’altro, era lui. Ai matrimoni faceva i miracoli, numeri d’alta scuola come stortare le forchette col pensiero, rivitalizzare gli zombie dei cimiteri limitrofi, trasformare l’acqua in vino, l’aranciata in arance, raddoppiare i pesci fritti e le bottiglie di vino rosso. Allietava i presenti in vari modi, sempre sommerso dagli applausi di una vera e propria claque, i discepoli. Tra cui Raz Degan, il suo sosia, uguale identico, forse un pelino meno slanciato.
Ricordo questo delle interminabili settimane passate con mia nonna. Poco altro perché noi Bonfanti siamo una stirpe tanto creativa quanto smemorata. Magari ci restano le frasi, qua e là, perché ce ne innamoriamo, ma dimentichiamo le sensazioni che sono, sicuramente, più importanti. L’altro giorno mio figlio Vinicio, che ha otto anni, e sua nonna Valeria che invece di primavere ne ha già viste sessantatre, erano uno accanto all’altra sul tavolo della cucina. E io li osservavo senza farmi sentire, stavo sull’uscio in silenzio, facendo finta di non esserci, di essere rimasto a letto a dormire. Mi fossi fatto vedere, avrei sbagliato perché avrei disturbato il loro momento magico, quello che tra due persone arriva solo una volta nella vita. “Nonnina, io voglio che il tempo si fermi – le diceva Vinicio accarezzandole il braccio -. Perché se continua a correre, tu diventerai vecchia e poi morirai”. “Vini, io sarò sempre con te perché sceglierò di essere una nuvola. Scenderò giù e ti starò abbracciata”.
Ieri dovevo lavorare come un matto. Avevo articoli da fare, sette collaboratori da chiamare, un gruppo jazz da tirare insieme dal nulla. Non ho fatto niente. Sono corso a casa e ho scritto due lettere che invierò il 10 settembre del 2024. Una è per Vinicio, per l’uomo che sarà, l’altra è per mia mamma, per quando sarà anziana. Sono due anime belle, profonde, buone, rare, tra dieci anni saranno ancora legatissimi, ma in un altro modo, senza la poesia che c’era nell’aria martedì, il loro giorno migliore. Perché c’era un bambino che non accetta la morte e ne cerca un rimedio e c’era una donna che si avvicina alla fine, ma non ne ha paura perché è ancora forte ed è già saggia. Domani non sarà così, cambieranno. Ma avranno le mie parole, scrivere, in fondo, serve a questo: a ricordare un attimo eccezionale.

vini pasta

NELLE FOTO: Vinicio Bonfanti, 8 anni, alle prese con le tagliatelle