Illuminato dal sol della salute, pippa che mi viene addosso ogni volta che passo un’oretta ad allenarmi alla palestra di Monte Red, e in quel sottile senso di colpa che sento forte nel cuore dopo sette giorni sette passati a magnarmi solo kebab di marca Universal “picante, maionese e doppia salsa bianca”, decido che è venuto il momento di svoltare andando alla Conad a comperare della frutta. Vado in quella bella grossa che sta in via Carducci carico di speranza, pronto a intraprendere la strada che mi porterà già in serata ad un’alimentazione migliore. Sono le due del pomeriggio, esco dalla maghina, Bergamo pare il Far West e inizio a riflettere, “perché mettermi in uno sbattimento del genere con questa caldazza? Chi me lo fa fare? La vita non è una guera…”. Scaccio i pensieri cattivi, tengo duro e sudo le fatidiche sette camicie nei cento metri che mi separano dal centro commerciale. Sono sul punto di svenire, ma non mollo, faccio gli ultimi metri e sono dentro. Salvo. L’aria condizionata è altissima, purissima e finissima, una botta di freschezza che mi fa ripartire con rinnovato entusiasmo lungo il sentiero delle mie buone intenzioni culinarie. Prendo il carrello rosso fuego, noto un’anziana signora dai capelli bianchi che mi guarda con aria di sfida, pensando che farò una spesa ad minchiam, ma non faccio una piega e mi dirigo a passo svelto verso il reparto della frutta. Va detto che non ci arrivo subito, le Tennents mi chiamano, “Matty, Matty, qualche birretta è salutare, vieni, vieni da noi” e cedo, tirando su lo scatolone da ventiquattro per essere a posto per un po’. Stessa cosa mi capita di fronte a una serie infinita di scatolette di tonno Rio Mare e di pizze surgelate e impacchettate dalla premiata ditta Cameo, poi al bancone dei formaggi, coi sughi Barilla, con le mozzarelline impanate, con le olive ascolane e con le costine già pronte. Guardo e ho già preso un sacco di roba senza volerlo e senza accorgermene. Mi concentro e mi do alla frutta. E’ la prima volta che mi capita in vita mia, lo giuro. Raccatto un melone, un’anguria, una manciata di pesche e tre albicocche di una certa grandezza. In un battibaleno sono alla cassa, anche perché mi è salita una discreta dose d’ansia perché c’è il giornale da impaginare e io, in quanto direttore, sono parte in causa, insomma a una certa devo per forza arrivare in ufficio e iniziare a lavorare. Non becco manco la fila, giusto un paio di anziani che appoggiano la merce a rilento credo per stare al fresco il più possibile a spese del marchio Conad. Li lascio fare utilizzando la famosa “barra del cliente successivo”. Dieci minuti dopo arriva il mio turno, la cassiera mi guarda e mi chiede “sacchetti?” e io cado dalle nuvole. Valuto e le sparo “tre”, lei mi risponde “quattro”, io le ripeto “quattro”, lei mi ripete “quattro”, io le ripeto un’altra volta “quattro”, lei mette fine al gioco del numero dei sacchetti dandomeli in mano, appunto quattro. Tento di iniziare a insacchettare, ma non riesco perché ho le mani di Jack Salamoia e non mi si aprono le buste. Lei mi vede in difficoltà e me le apre in men che non si dica. Mi sorride divertita, intuendo fin da subito che sono alle mie prime armi, che sono un discreto ebete e che ho parecchio da imparare nell’antica arte della massaia. Arriva alla frutta e trattiene a fatica la risata che le sta venendo, “ma non l’hai pesata?”, e io “no, perché?”, e lei “come perché?”, e io “ah, cazzo, va pesata?”, e lei “sì”, e io “e adesso che succede?”, e lei “che fai? La pesi? Ti aspetto…”, e io “no, dai, fa niente, non voglio disturbare. Torno domani”. Ed è lì che mi accorgo che le sta uscendo all’improvviso tutta la sua parte materna, aspetto particolarmente spiccato nel genere femminile orobico. Lo noto perché mi guarda con una tenerezza infinita, rassicurandomi. Mi dice “vedrai che ce la farai” dandomi lo scontrino, 68 euro interamente o quasi di schifezze.
Matteo Bonfanti