di Matteo Bonfanti

Da quando mi sono messo in questa bella avventura che si chiama Grandi Storie, quasi ogni sera mi vedo un film che racconta la vita di qualcuno. Lo faccio per imparare qualcosa, per scoprire un po’ come fanno quelli bravi a raccontare un’esistenza dall’inizio alla fine. E dal momento che sono un calciatore e un musicista, ammetto pessimo in entrambi i casi, guardo più che altro vicende che riguardano fuoriclasse del football o della chitarra. Mercoledì sono andato al cinema, sono venuti pure mia moglie e i miei bambini, tutti e quattro al Capitol per Pelé. Accanto avevamo i mitici pulcini gialli del Villa d’Almé e i loro genitori, che mi sono sembrati persone allegre, divertite, divertenti e senza grosse pretese calcistiche.
Va detto per onor di cronaca che l’arte dei fratelli Lumière è la seconda cosa che mi piace di più al mondo. E questo anche perché mi fa tornare bambino: io, mio babbo e mia sorella alle nove di sera sul divano, in religioso silenzio, intrippati duri davanti alla tv, con la cassetta vhs appena inserita, concentrati e felici anche la notte che ci siamo visti “The day after”, quello dove scoppia la guerra atomica e ci sono le persone che si sciolgono all’improvviso diventando improvvisamente degli scheletrini. Quel film fa paurissima, è il terrore puro, e io da bimbino ero cattolico per via di quella visione. Mi alzavo la mattina e dicevo tre Ave Maria e un paio di Gloria al Padre per convincere Dio ad evitare che l’Urss s’incazzasse di brutto con gli americani finendo per spararci addosso dieci missili all’idrogeno, letali, persino per mia mamma che era super. Ho smesso di fare le mie preghierine quotidiane a vent’anni e passa, che ormai era caduto il Muro di Berlino e il disastro nucleare non sarebbe arrivato e Dio non serviva più così tanto. Ho smesso di andare all’oratorio e ho cominciato ad andare agli Arci disseminati nella provincia di Lecco, a quello sul lago, vicino al Ponte Nuovo, dove ci fumavamo un sacco di canne, oppure alla Ca’ del Diaul di Valgreghentino, a giocare a briscola chiamata mentre ci stordivamo col vino rosso.
Dopo la doverosa nota autobiografica, che manco mi ricordo perché l’ho scritta, torno a Pelè che è stato diretto dai fratelli Jeff e Michael Zimbalist. E ve lo consiglio perché è bellissimo. La gente dalla sensibilità normale, tipo mia moglie, si è commossa una dozzina di volte. E a un certo punto pure io, che sono di ghiaccio, ero lì e lì, col magone sul groppone, soddisfatto come una Pasquetta che pensavo “sto giro ce la faccio, mi scendono le lacrime”. Ma poi non è accaduto. E sono tornato a casa con quel filo di delusione. Non frigno da quando è morto mio nonno Riccardo, credo fosse il 1983, insomma è passato parecchio tempo, e vorrei mi capitasse di nuovo. Al di là del mio mancato pianto, che poi chissenefrega, resta che Pelè fino alla maggiore età è stato un gran tipo, pieno zeppo di talento, ma pure un sacco dolce e altrettanto insicuro a causa di un cuore grande, ma sensibile. A trasformarlo nel calciatore del secolo i suoi genitori, complici, sempre e per sempre dalla parte di O Rey, proprio come nella canzone di De Gregori che sento in sottofondo quando faccio i compiti con Vinicio e Zeno, i miei figli.
Ieri ero un cadavere ambulante, che non so perché ma è da un mese che dormo poco e male, svegliandomi puntualissimo alle 9 e 27. C’erano due miei amici a sbevazzare vicino a casa mia, ma ho passato la mano fingendo di avere del lavoro arretrato, e mi sono rintanato. Sono andato al baracchino di fronte al tabaccaio Gamba e ho sbranato un doppio cheeseburger, giusto per sentirmi un po’ in colpa con chi mi ama e che ci tiene che io sia un convinto vegetariano, a un passo dal trasformarmi in un crudista vegano. Ho nascosto accuratamente le prove, ho aperto una Ceres e mi sono messo sul divano con la mia copertina di Linus, che è blu e l’ho comperata all’Ikea un secolo fa.
Consigliato dall’amico Neri, sono andato su on demand e mi sono sparato Amy, la vicenda della Winehouse, una delle pochissime cantautrici di successo che ho amato alla follia, sperando di incontrarla a Londra, per caso, giusto per dirle: “Cazzo, figa, se sei brava, sento sulla pelle ogni nota e ogni parola che ci regali. Grazie che ci sei e che fai i cd”. Amy sta alla musica come Pelè sta al calcio: entrambi geniali, unici, predestinati, amati, esplosi da ragazzini quando non deve succedere perché non è il tempo e si rischia di farsi male male. Se l’attaccante verdeoro è vivo, vegeto e sorridente mentre la compositrice inglese ci ha lasciato che aveva appena ventisette anni, è perché hanno avuto due papà diversissimi, uno è stato un riparo, l’altro uno stronzo sfruttatore.
Scrivo a me, che è poi quello che faccio quasi sempre, ma pure a tutti gli altri padri che ci sono nel mondo: i figli sono gioielli preziosi, rari, da maneggiare con cura, con il mille per cento dell’amore che si ha dentro. Chi non lo fa, li perde.

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