di Matteo Bonfanti

Per me i Mondiali sono sempre quelli: Schillaci spiritato che segna e noi che gridiamo in coro: “Totò, ti sputo in un occhio”. Che detta oggi è una frase senza senso, ma ventiquattro anni fa, davanti al televisore sfigato che c’era a Primolo, si doveva dire perché portava bene, faceva vincere gli azzurri di Azeglio Vicini, la nazionale più forte di sempre oppure no, non lo so, ma così la sento anche se forse m’inganno. Dovrei vedermi una partita, che ne so il terzo-quarto con l’Inghilterra o la tragica semifinale Italia-Argentina, ma non ne ho il coraggio, avrei emozioni troppo grandi e ingombranti che manco il baule pieno di gente di Tabucchi. Mi tornerebbe addosso chi ero da bambino e cosa sono diventato adesso, da adulto, ora che ho fatto come si deve e ho rinunciato a molto, soprattutto alla libertà.
So che allora ero diverso, spensierato perché erano così le vacanze e io a giugno, finita la scuola, andavo in montagna con i preti e mi divertivo un sacco perché al centro di tutto c’era il pallone. Il pomeriggio a giocare nel prato le sfide di tornei interminabili, la sera in refettorio a guardare Roberto Baggio e Giuseppe Giannini, il Principe, che un po’ mi somigliava perché si applicava e qualche colpo l’aveva anche, ma era lento come la fame. Mi sentivo italiano, mi emozionava l’inno, il calcio d’inizio, Franco Baresi che sembrava vecchissimo, ma correva come un grillo, la classe di Paolo Maldini, Gianluca Vialli fuori forma, ma che voleva esserci. Mi piaceva fossimo lì, attaccati, abbracciati, pronti a esultare, trenta tredicenni, in quel momento identici. Non lo saremmo stati più: già ai Mondiali successivi, quelli in America del 1994, saremmo stati lontani, ognuno con la propria strada da seguire: io studiavo al liceo, suonavo nei locali e già iniziavo a scrivere, altri erano in fabbrica a lavorare, con le ferie da prendere e le frasi di rito: “L’azienda chiude ad agosto, a giugno ci sono i turni da fare, altro che Primolo e Padre Marco”.
Nelle notti magiche, invece, eravamo ancora tutti allineati, fianco a fianco sulla stessa linea di partenza, pieni zeppi di speranza come si sta all’inizio di una corsa campestre: immaginavamo saremmo arrivati in gruppo, tranquilli, senza faticare, sarebbe stata una scampagnata meravigliosa, come quella fatta il giorno prima, al lago Palù. E’ stato allora che sono diventato comunista e, ironia della sorte, non lo devo al sessantotto raccontato dai miei genitori, ma a un sacerdote, Giulio, che magari era pure democristiano. All’inizio del nostro soggiorno ci sequestrava i soldi che avevamo portato da casa. E ce li ridava a modo suo: mille a sera comunque, al figlio del ricco e a quello del povero che la sera avrebbero dovuto scegliere come investirli al bar, un gelato oppure un sacchetto di caramelle miste. L’idea mi è piaciuta, mi è rimasta in testa, vorrei fosse sempre così e per questo ancora m’impegno. Mi sembra tanto semplice: duemila euro al mese garantiti,  lo stesso stipendio all’imprenditore e all’operaio, al presentatore televisivo e al parrucchiere, alla barista, alla commessa, al medico dell’ospedale e all’infermiere, all’educatore, al calciatore di Serie A, al poliziotto in gamba, al giornalista e al parlamentare. Poi ognuno decide come spenderli: io scelgo i miei due bambini e la Gibson, un altro l’appartamento in centro, un altro risparmia per la Bmw. Rinunciassero Napolitano e Marchionne ad avere troppo con i milioni che prendono da noi, starebbero meglio e farebbero stare bene un sacco di persone.
E magari ci sentiremmo tutti uguali, tutti italiani. Perché  già nel 1994 io agli azzurri non tenevo più. Avevo paura a gridare Forza Italia, magari mi scappava e qualcuno si metteva a pensare fossi berlusconiano e quindi con qualcosa da nascondere nella dichiarazione dei redditi. Poi nel 1998 ho iniziato a tifare per gli africani perché mio papà ospitava a casa un negro che stava messo malissimo e io speravo fosse felice almeno per il calcio visto che in Italia faceva una fatica della Madonna a mantenere un lavoro decente. Nel 2002, nel 2006 e nel 2010 sempre formazioni anglosassoni. Gli azzurri parevano i Backstreet Boys tanto erano di plastica, depilati, alla moda, con un sacco di fighette al seguito, io speravo un po’ nella Scozia e parecchio nell’Inghilterra perché avevo letto sul Corriere della Sera che noi rossi (di capelli) eravamo in via di estinzione. Pensavo sarebbe stato bello chiudere la presenza della nostra specie sulla Terra con una roboante vittoria ai Mondiali. Magari avremmo convinto i potenti a clonarci. A farci riprodurre ancora un attimino, giusto un secolo.
Il trionfo non è arrivato. Per chi tiferò? Per la nazionale preferita da Zeno e Vinicio, rispettivamente sei e otto anni, la prima volta che ci capiranno qualcosa, di sicuro il gol, non assicuro sul fuorigioco che non esiste nelle famose regole della palla strada che stanno iniziando a praticare a casa e in cortile. Ci piace Eto’o. Vedremo.